Giorno per giorno – 10 Dicembre 2009

Carissimi,

“In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui. Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11, 11-12). Come dev’essere il Dio-che-viene? O per dirla con le parole di Giovanni: È Gesù quello che deve venire (oggi come allora) o dobbiamo aspettarne un altro? (cf Mt 11,3) . Sì, perché da Dio, o anche solo da un suo autorevole rappresentante, noi, a dire il vero, ci si aspetterebbe di più. Cose del tipo: “Ecco, ti rendo come una trebbia acuminata, nuova, munita di molte punte; tu trebbierai i monti e li stritolerai, ridurrai i colli in pula. Li vaglierai e il vento li porterà via, il turbine li disperderà” (Is  41, 15-16). La profezia di Isaia ripresa dalla predicazione del Battista (Mt 3, 12). E, invece. Invece, ti arriva Gesù. “Viene uno più forte di me” (Lc 3, 16) aveva detto di lui Giovanni. Ma dove più forte? Le notizie che gli arrivavano in carcere erano altre e preoccupanti. Nulla dell’immagine di messia da lui preconizzata. Anzi proprio il contrario. E Gesù glielo manda a dire, con un’aggiunta: “Beato colui non si scandalizza di me” (Mt 11, 6). Poi, parlando ai suoi discepoli, tesse l’elogio del Battista: è il più grande di tutti, maggiore di ogni altro profeta, perché ha visto “chi” è colui che viene, anche se non ha indovinato “come” viene. E, in questo senso, il più piccolo nelle nuove relazioni del Regno, è più grande del Battista. Perché è giá a misura di Dio. Il Dio che si svuota, si svuota, si svuota, fino a farsi il più piccolo e servo di tutti. E non è uno scherzo. È niente meno che il cammino della croce. Che esige violenza, un’incredibile violenza su di sé. Per questo del Regno si possono impadronire solo i violenti. Un determinato tipo di violenti, ovviamente. Ora, come siamo noi, com’è la nostra chiesa? Ogni volta più piccoli, più nascosti, più servi? Proprio come Lui?        

 

Le memorie di oggi sono quelle di: Karl Barth, teologo e “gioioso partigiano di Dio”; Thomas Merton, monaco e profeta del dialogo interreligioso; Franz Rosenzweig, ebreo fedele e fautore del dialogo ebraico-cristiano; e Caspar Schwenckfeld, mistico e riformatore.

 

10 Karl Barth.jpg“Gioioso partigiano di Dio” era la definizione che a Karl Barth píaceva dare di sé. Era nato il 10 maggio 1886, a Basilea, in Svizzera, dove il padre Fritz era professore di Nuovo Testamento. Dal 1904 al 1909, il giovane Karl studiò teologia alle Università di Berna, Berlino, Tubinga, e Marburgo. Nel 1913 sposò Nelly Hoffman, da cui ebbe cinque figli. Barth si fece presto conoscere per la critica radicale sia della teologia liberale, allora dominante, quanto dell’ ordine sociale allora vigente. Nel suo commento famoso alla Lettera ai Romani (1919), Barth sottolineò la discontinuità tra messaggio cristiano e mondo. Dal 1921 al 1930, egli fu professore di teologia riformata a Gottinga e poi a Münster, e dal 1930 al 1935 a Bonn. È questo il periodo del suo scontro decisivo con il nazismo. Hitler salì al potere il 30 gennaio 1933. Il 25 aprile dello stesso anno venne firmato l’osceno manifesto dei cristiani tedeschi, che intendevano sopprimere l’ Antico Testamento, degiudaizzare Gesù e trasformare il Crocifisso in un eroe del cristianesimo positivo. Barth rispose con durezza che compito della Chiesa è di annunciare  il Vangelo “anche nel Terzo Reich, ma non sotto di esso e nel suo spirito”. E, poco dopo, stilò le sei tesi del Sinodo di Barmen (29-31 maggio 1934), che diedero origine alla Chiesa Confessante tedesca, che sarà di esempio per tutte le Chiese cristiane alle prese con il totalitarismo dell’ ideologia e dello Stato. Il 7 novembre 1934, Karl Barth rifiutò di prestare giuramento al Führer. Il 26 novembre dello stesso anno venne sospeso dall’ insegnamento e in seguito privato della facoltà di parlare. Il 2 luglio 1935 ritornò in Svizzera, a Basilea, dove, insegnerà nella locale Università fino al 1962 e dove abiterà fino alla sua morte, avvenuta il 10 dicembre 1968. 

 

10 THOMAS MERTON.jpgThomas Merton era nato in Francia il 31 gennaio 1915 da padre neozelandese e da madre americana, entrambi pittori. Studiò in Francia, poi in Inghilterra e successivamente negli Stati Uniti, dove si laureò in Lettere alla Columbia University de New York. Dopo molte esperienze culturali e politiche, nel 1939 si convertì al cristianesimo, entrando nella Chiesa cattolica e, nel 1941, divenne monaco trappista nell’Abbazia di Gethsemani, nei pressi di Louisville, nel Kentucky. Verso la fine della vita, maturò un crescente interesse per le vie spirituali alla contemplazione proprie delle religioni orientali, soprattutto del Buddhismo, interessandosi alla loro relazione con l’approccio cristiano. Mentre si trovava a Bangkok, in Thailandia, per partecipare alla prima Conferenza inter-monastica internazionale, morì fulminato da un elettrodomestico, il 10 dicembre 1968. Nel suo ultimo intervento ebbe a dichiarare: “Il monaco appartiene al mondo ma, in quanto egli si è dedicato completamente a liberarsi da esso per liberarlo, il mondo appartiene al monaco. Non possiamo immergerci nel mondo e lasciarci trasportare dalle cose. Questa non è salvezza. Se vogliamo tirare su dall’acqua uno che sta annegando, dobbiamo avere un punto d’appoggio. Se uno sta annegando e noi siamo su uno scoglio, possiamo farlo, oppure possiamo tenerci a galla nuotando. Ma non c’è niente da guadagnare a saltare semplicemente in acqua e affogare con l’altro”.

 

10 FRANZ_ROSENZWEIG_III.GIFFranz Rosenzweig  era nato il 25 dicembre 1886 a Cassel, in Germania, da Georg Rosenzweig e Adele Alsberg, una coppia ebraica non praticante. La sua educazione fu perciò essenzialmente di carattere secolare e agnostico. Nel 1913, deciso a convertirsi  al cristianesimo, sull’esempio del cugino, Eugen Rosenstock,  volle almeno per una volta (che doveva nelle sue intenzioni essere la prima e l’ultima), vivere l’esperienza dello Yom Kippur (la grande festa ebraica del Perdono). Tale esperienza fu decisiva per il suo “ritorno” alla religione dei Padri. Discepolo di Hermann Cohen e grande amico di Martin Buber, scrisse La Stella della Redenzione, in cui illustra la sua visione filosofica circa i modi in cui si esprime la relazione tra Dio, essere umano e mondo: creazione, rivelazione e redenzione. Rosenzweig fondò anche la Lerhaus, un istituto che si proponeva di permettere il recupero dell’eredità ebraica a quegli ebrei che avevano perduto la loro identità religiosa e culturale. L’istituzione produsse numerosi eminenti esponenti dell’intellettualità ebraica. Nel 1922 Rosenzweig venne colpito da una paralisi che, lasciandogli intatta la lucidità della mente, lo immerse nella più dura sofferenza, privandolo progressivamente dell’uso dei muscoli, degli arti, del corpo intero e della parola, ma che non gli impedì di continuare a riflettere e approfondire le tematiche più stimolanti del pensiero ebraico.  Benché il medico gli avesse diagnosticato al massimo un anno di agonia, egli sopravvisse sette anni, ridotto a comunicare con la moglie solo attraverso il battito delle ciglia che essa aveva imparato a interpretare e tradurre in parola. La morte lo colse il 10 dicembre 1929.

 

10 Caspar Schwenkfelders.jpgCaspar Schwenckfeld nacque ad Ossig (Osiek), nella regione tedesca (ora polacca) della Slesia nel 1489, da una famiglia nobile di devoti cattolici. Dopo gli studi all’università di Francoforte, fu avviato alla carriera diplomatica, svolgendo funzioni di consigliere a diversi nobili dell’epoca. Nel 1518 sperimentò quella che egli chiamò una “visita del Divino” e decise di dedicarsi allo studio approfondito delle Sacre Scritture, dei primi scritti della Chiesa e delle lingue ebraica e greca. Nel 1521 aderì alla Riforma, ma già negli anni immediatamente successivi sorsero i primi dissapori con Lutero, soprattutto circa l’interpretazione della Santa Cena, la natura della Chiesa, e le commistioni di questa con lo Stato. Tutto ciò gli costò persecuzioni, una vita raminga e continui spostamenti, spesso in condizioni assai penose. Nel 1541, nella biblioteca del monastero benedettino di Kempten, nella Baviera meridionale, scrisse la sua opera più famosa La grande confessione sulla gloria di Cristo, che costituisce la sintesi del suo pensiero. Egli credeva che il vero cristiano, partecipando alla Cena del Signore, si ciba del corpo spirituale di Cristo, che cresce poi come un seme piantato in lui, trasformandolo a immagine di Dio e della persona di Cristo. Il suo maggior desiderio era di adorare, lodare e glorificare Cristo. Lo scopo della sua azione evangelizzatrice era di insegnare l’unità con il Cristo reale, vivente, spirituale, al fine di vivere una vita radicalmente trasformata. Continuamente minacciato dai suoi nemici, proseguì nella sua instancabile opera d’evangelizzazione attraverso tutta la Germania meridionale. Ospite di una famiglia amica, nella città di Ulm, il 10 Dicembre 1561,  morì, ammalato e stremato dalle persecuzioni. Oggi la Chiesa Schwenckfeldiana, autonoma da altre denominazioni e organizzata in cinque comunità, tutte in Pennsylvania,  conta circa tremila fedeli.

 

I testi che la liturgia odierna propone  alla nostra riflessione sono tratti da:

Profezia di Isaia, cap.41, 13-20; Salmo 145; Vangelo di Matteo, cap.11, 11-15.

 

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

 

In un testo di Thomas Merton, incluso in una collettanea dal titolo “Abba, dimmi una parola. La spiritualità del deserto” (Qiqajon), troviamo, ci pare, una descrizione della violenza richiesta per conquistare il regno. Ve ne proponiamo, nel congedarci, un brano come nostro    

 

PENSIERO DEL GIORNO

I santi del deserto erano nemici di qualsiasi espediente, sottile o grossolano che fosse, con cui “l’uomo spirituale” cerca di dominare quanti ritiene inferiori a sé, gratificando così il proprio “io”. Essi avevano rinunciato a tutto ciò che sapeva di punizione e di vendetta, per quanto segreto esso fosse. La carità dei padri del deserto non ci è presentata come qualcosa che si effonde con facilità poco convincente: ovunque è riconosciuta, senza nessun tentativo di minimizzarla, l’enorme difficoltà e la grandezza del compito di amare gli altri. […] Questo comporta una sorta di morte del nostro essere, del nostro io. Ora, nonostante tutti i nostri sforzi, c’è in noi una resistenza a questa morte: lottiamo con ira, con recriminazioni, con richieste, con ultimatum. Cerchiamo tutti i pretesti per interrompere e abbandonare questa dura fatica. Ma nei detti leggiamo che abba Ammone trascorse quattordici anni in preghiera per dominare l’ira o, meglio, cosa che è ancora più importante, per esserne liberato. Leggiamo che abba Serapione vendette l’ultimo libro che gli restava, un esemplare dei vangeli, per darne il ricavato ai poveri, vendendo così “le parole stesse che gli ordinavano di vendere tutto e darlo ai poveri”. Un altro abba rimproverò severamente certi monaci che avevano fatto gettare in prigione un gruppo di ladri, con il risultato che quegli eremiti pentiti forzarono la prigione, di notte, per rimettere in libertà i carcerati. A più riprese leggiamo di abba che si rifiutarono di unirsi al biasimo generale nei confronti di questo o di quel colpevole; così abba Mosè, un negro grande e mite, entrò in mezzo alla severa assemblea portando una cesta piena di sabbia, che lasciava scorrere attraverso i numerosi fori. “Sono i miei peccati che scorrono via come sabbia”, diceva, “eppure vengo qui per giudicare i peccati di un altro”. (Thomas Merton, La sapienza del deserto). 

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 10 Dicembre 2009ultima modifica: 2009-12-10T23:59:00+01:00da fraternidade
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