Giorno per giorno – 29 Agosto 2009

Carissimi,

“Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì” (Mt 25, 14-15). Noi, il racconto del martirio del Precursore, l’avevamo già letto giusto all’inizio di questo mese, nella versione che ne dà Matteo, così oggi abbiamo deciso di meditare sulla parabola dei talenti, proposta dalla liturgia del Sabato di questa 21ª settimana del Tempo comune. Che i talenti della parabola non siano quelli che generalmente s’intende, sulla scorta magari di una sbrigativa interpretazione di questa, è sufficientemente chiarito dal fatto che la loro distribuzione è fatta in base alla capacità di ognuno dei servi. Così, quando nella lettura che ne abbiamo fatta oggi pomeriggio con gli amici di “Fé e Luz”, qualcuno ha suggerito che i talenti indicano che tutti siamo capaci di fare qualcosa, è evidentemente partito con il piede sbagliato. E se davvero ci fosse, come c’è, qualcuno che non sa fare niente. Immobile su un letto, senza vedere, né sentire, né parlare, né intendere nulla, è perché lui, di talenti, non ne ha ricevuti? No, i talenti, la ricchezza che quel signore distribuisce tra i suoi non sono queste cose qui. Proviamo allora a metterla così: che i talenti siano l’Evangelo del Regno, cioè la buona notizia che, come usiamo dire in “Fé e Luz”, indipendentemente dal quoziente di intelligenza, o dalle attitudini lavorative,  con cui la società pretende di catalogarci, tutti siamo in grado di ricevere e dare amore. E di esprimerlo. Anche solo con un suono, una carezza, uno sguardo, un sorriso. Anche solo con un brivido. Oppure, cerchiamo di vedere nella figura dei tre servi un modo d’essere della chiesa. Che ne ha fatto la chiesa, ogni chiesa, quella più grande, universale, e quelle piccole locali, e quelle più piccole ancora, di quartiere o domestiche, della profezia dell’amore che hanno ricevuto in dono? L’hanno testimoniata ai quattro venti, giocandoci gioiosamente e coraggiosamente la vita? o l’hanno soffocata, nascosta, seppellita, proponendo un’immagine di Dio falsa e spaventosa quanto basta (un dio che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso), tutto sommato utile per dominare e asservire le coscienze? Se siamo chiesa di questo tipo, siamo già da ora (e grazie a Dio!)  sbugiardati. E sospesi dall’incarico di evangelizzare (è questo il significato del talento sequestrato). E rinchiusi per un po’ di tempo al buio, perché si provi la paura che ci siamo azzardati a seminare negli altri. O  rimandati a settembre. Per vedere se nel frattempo avremo imparato la lezione.

 

Il calendario ci porta oggi la memoria del Martirio di Giovanni Battista.

 

29_MARTIRIO_DE_JO_O.JPGLe circostanze della vita e del martirio  del Battista le ricaviamo dal Vangelo e dalla tradizione. Nell’anno 150 dell’imperatore Tiberio (27-28 d.C.), Giovanni, che viveva dalla prima giovinezza una vita dura e austera, iniziò la sua missione, chiamando il popolo a conversione, in vista di un giudizio divino che egli prevedeva imminente. Denunciando soprattutto l’ipocrisia di molti tra coloro che facevano parte dei movimenti religiosi del tempo, si guadagnò presto la simpatia e l’appoggio dei ceti più umili ed emarginati. Riconobbe e additò in Gesù, che fu da lui battezzato e ne fu forse discepolo per qualche tempo, il messia promesso. Condannò pubblicamente la peccaminosa condotta di Erode Antipa e della cognata Erodiade. Apparentemente questa fu la causa del suo arresto e della sua condanna a morte, decisa da Erode, ma, secondo il Vangelo, richiesta da Erodiade e strappata al re da Salomé, figlia di quest’ultima.

 

Le letture della liturgia di oggi sono quelle della festa che celebriamo e sono tratte da:

Profezia di Geremia, cap. 1,17-19;  Salmo 71; Vangelo di Marco, cap. 6,17-29.

 

La preghiera del Sabato è in comunione con le comunitè ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

 

Noi, qui, oggi, si ricorda anche un uomo, piccolo e testardo, che  in questa nostra periferia, alla periferia del mondo, ha perduto (e ha, così, salvato)  i suoi ultimi vent’anni di vita: Philippe Leddet.

 

29_FELIPE_LEDDET.JPGPhilippe Leddet era nato a Touraine, in Francia, il 30 agosto 1916. Il 27 maggio 1942 entrò nel monastero di Madiran (che nel 1951 si trasferirà a Tournay), dove iniziò con entusiasmo il suo impegno monastico. Nel 1961, rispondendo all’invito, diretto ai religiosi d’Europa dal papa Giovanni XXIII, di aprire fondazioni nel Terzo Mondo, un gruppo di monaci di Tournay, tra cui Filipe e Pedro, si recò in Brasile, fondando il monastero di Curitiba, che presto si caratterizzò come luogo di dialogo ecumenico e di impegno concreto a favore della giustizia. Nel 1977, la comunità, su invito di dom Tomás Balduino, si trasferì a Goiás, con l’intenzione di approfondire la scelta dell’inserimento tra i poveri. Per alcuni anni i suoi membri vissero una situazione di diaspora e Filipe scelse di abitare in una casupola alla Vila União, nella periferia povera della città, collaborando con la Pastorale della Terra, dedicando i suoi sforzi a favore della lotta dei sem-terra e alla creazione della Scuola Famiglia Agricola.  Il 27 febbraio 1985 i monaci ripresero la loro vita comunitaria, su un terreno donato loro dall’Ospizio della città. Filipe continuò quello di sempre. Durante la sua ultima visita in Francia, morì improvvisamente di infarto, a Tour, il 29 agosto 1996, un giorno primo di compiere ottant’anni.

 

“Ogni giorno dobbiamo amare di più, essere più liberi, capire di più”. Ecco il talento da trafficare. A misura delle nostre capacità. È una delle lezioni che ricaviamo da questo testo di Giovanni Vannucci, tratto dal suo libro “Cristo e la libertà” (Romena), che, congedandoci, vi proponiamo come nostro  

 

PENSIERO DEL GIORNO

Nelle nostre coscienze ci siamo fatti tante idee cristallizzate di Cristo; le dovremmo disfare, distruggere tranquillamente per andare oltre, perché… cos’è Cristo? È la luce che illumina ogni uomo, la luce vera che è vita, che è dentro di noi, ci rende continuamente inquieti, ci corrode intimamente fino a che non rispondiamo alle sue energie, forze, sollecitazioni; ed è implacabile fintanto che tutto il nostro essere non diventi luminoso. Questo è il Cristo. Un sogno di pienezza di esistenza, indomabile e attivo, che è in noi, un sogno di amore più vasto e sconfinato, un desiderio di libertà che distrugge tutte le nostre realizzazioni di libertà per una libertà dove ci sentiremo finalmente liberi come figli di Dio. Per distruggere le immagini che ci siamo formati di Cristo, cosa dobbiamo fare? Vi dico un’espressione dura: dobbiamo rinnegare noi stessi. Cosa significa rinnegare noi stessi? Significa nascere alla gioia di vivere, riempire di un ardore gioioso tutta la nostra giornata, liberarci da tutto ciò che è negativo, limitato, egoista, che ci impoverisce e degrada. […] Ogni giorno dobbiamo amare di più, essere più liberi, capire di più, trasfigurare il nostro egoismo in altruismo, liberarci dalle nostre non libertà, dalle nostre idee limitate e meschine per assurgere a una nuova creatura attraverso la fatica costante, per decenni e cinquantenni. Questo è difficile. Allora preferiamo avere di Cristo un’immagine cristallizzata e andare ad adorarlo, a cantare inni, a fare processioni; ma Cristo vuole la nostra trasfigurazione: la mia carne deve diventare luce, la mia mente deve diventare vasta come la mente di Dio, il mio cuore deve dilatarsi nell’universalità dell’amore di Dio. Essere cristiani è questo: essere di Cristo nelle cose ordinarie, essere veri uomini, donne, padri, madri, figli, professori, operai. (Giovanni Vannucci, Cristo e la libertà).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.  

Giorno per giorno – 29 Agosto 2009ultima modifica: 2009-08-29T23:46:00+02:00da fraternidade
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