Giorno per giorno – 23 Novembre 2008

Carissimi,
Dovunque io vada tu sei il compagno / che mi tiene la mano e mi conduce. / Sulla strada in cui cammino / tu sei il mio solo sostegno. / Al mio fianco tu porti il mio fardello. / Camminando, se divago / tu mi raddrizzi: / hai spezzato le mie resistenze, / o Dio, mi hai spinto in avanti. / Ed ora la tua gioia mi penetra e mi circonda / e io sono come un bambino che gioca in una festa”. È il salmo LXVIII del mistico hindù Tukaram, che canta lo stesso Dio pastore della Bibbia ebraico-cristiana, quello di cui i poveri di ogni credo e cultura, sanno di potersi fidare, tanto quanto ragionevolmente diffidano di ogni potere sacro o profano, politico, economico, sociale, culturale o religioso. E speriamo di non averne lasciato fuori qualcuno. Dio, Lui, è così straordinariamente Dio, che non può che farsi beffe, continuamente, di ogni forma di potere, anche per evitare di disperarsi. E in questa ultima domenica dell’anno, Lui provocatore com’è, ci prepara l’ultimo scherzo: il giudizio universale. E butta letteralmente a mare tutte le verità, e i dogmi, e i comandamenti, e i sacramenti. E, appunto, ci spiazza tutti. Perché c’è pure chi si è preso la briga di annotarsi tutte le messe a cui ha assistito nel corso della vita, e tutte le indulgenze lucrate e i primi venerdì, che ne bastavano nove, e se ne è fatti almeno quattrocentocinquanta, e i comandamenti, come il giovane ricco del Vangelo, ha fatto una fatica boia, ma se li è osservati quasi tutti, e quando non c’è riuscito li ha debitamente confessati, persino quando pensava che fornicare fosse uccidere le formiche, e si chiedeva perché loro avessero questo privilegio di essere menzionate tra gli insetti. E, invece. Si arriva là, davanti a Lui, con questo po’ po’ di bagaglio e Lui, per la prima volta serio: Per favore! E poi una pausa e ancora: per favore! E noi si è costretti a mettere giù lo zaino, la valigia, la borsa e il marsupio e si resta lì nudi senza neppure la classica, a suo modo povera e umile, foglia di fico. E Lui non avrà bisogno neppure di aprire più la bocca, perché noi lo riconosceremo. E ricorderemo di noi, di come l’abbiamo trattato, o irriso, o scansato, o dimenticato. Noi che dovevamo essere, come Lui, per ogni altro, il Pastore di cui il povero, il migrante, il prigioniero, il malato, l’affamato, l’ignudo, il matto, il barbone, il vecchio, il bambino, l’omosessuale, la prostituta, potesse dire: tu mi hai portato a riposare in pascoli erbosi, condotto ad acque tranquille, rinfrancato, aiutato a portare i pesi della vita, mi hai dato sicurezza, mi hai fatto sentire accolto, restituito allegria e preparato una mensa imbandita sotto gli occhi di quanti mi volevano male. E invece. In quello Sguardo, indifeso anche allora, ci sarà il nostro inferno, il nostro rossore, la nostra vergogna infinita. Che vorremmo eterna, se non fosse che. Forse.

Oggi, XXXIV Domenica del Tempo Comune, ultima dell’anno liturgico, è la Festa di Gesù Cristo, Amico e Servitore dei poveri, Signore dell’Universo.

Le letture che la liturgia propone alla nostra riflessione sono tratte da:
Profezia di Ezechiele, cap. 34,11-12.15-17; Salmo 23; 1ª Lettera ai Corinzi, cap. 15,20-26.28; Vangelo di Matteo, cap. 25,31-46.

La preghiera della domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

Oggi il calendario latino-americano porta la memoria di Miguel Agustin Pro, martire in Messico.

23 MIGUEL PRO.gifJosé Ramón Miguel Agustín era nato a Guadalupe, vicino a Zacatecas, in Messico, il 13 gennaio 1891, terzo figlio di Miguel Pro e di Josefa Juárez. Ragazzo estroverso e allegro, entrò nella Compagnia di Gesù a vent’anni, continuando a dar prova di spirito di sacrificio, nonché di allegria costante nel dono di sé. Dopo la formazione, avvenuta in California, Spagna, Belgio (dove fu ordinato prete nel 1925) e in Nicaragua, rientrò nel 1926 in Messico, che conosceva in quegli anni una situazione drammatica a livello sociale, politico e religioso. Quelli che seguirono furono mesi vissuti pericolosamente, di ministero pastorale clandestino, con celebrazioni in segreto dell’Eucaristia, esercizi spirituali per il popolo perseguitato, visite frequenti a quanti avevano più bisogno di una parola amica e di un aiuto concreto: i poveri, i malati, i moribondi. Il tutto eludendo astutamente la sorveglianza e i controlli di una polizia sempre più disorientata. Anche se si trattava di un’attività strettamente sacerdotale e caritativa, la legge in vigore la considerava illegale. E il governo massone dell’epoca non gliela perdonò. Nel clima di repressione generalizzata che seguì l’attentato al generale Alvaro Obregon, il giovane gesuita venne arrestato e, senza che si tenessero in alcun conto le deposizioni dei testimoni che provavano la sua innocenza, e che si istituisse un regolare processo, fu condannato e fucilato a Città del Messico, il 23 novembre 1927, con il solo fine di incutere paura a quanti non intendevano piegarsi ad un regime anticattolico e inumano. Le sue ultime parole, prima della scarica dei fucili, furono la sua professione di fede nel Re povero al cui servizio si era liberamente messo: “Viva Cristo Re!”. Uno degli autori dell’esecuzione dirà in seguito: “È così che muoiono i giusti”. In occasione dei funerali, nonostante le misure repressive in atto contre le manifestazioni religiose, accorsero più di ventimila persone, per ringraziare colui che aveva fatto loro dono della sua vita.

“Se un tiranno è vinto da un Re valoroso”: è l’immagine richiamata da Atanasio in un passo del suo “De Incarnatione”. E noi sappiamo che questo re è il re che celebriamo oggi, il Cristo crocifisso con tutti i popoli crocifissi della terra, che ci schioda dalla morte dei nostri egoismi e ci fa risorgere all’economia del Regno. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura quel brano. Che, tra le altre cose, cerca di spiegare come e perché si possa arrivare a dare la vita per un Re, per un regno come quello. È questo per oggi il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Un tempo, prima della venuta del Signore, tutti piangevano quelli che morivano: non erano forse destinati alla corruzione? Ma dopo che il Signore risuscitò il suo corpo, la morte non fa più paura. Tutti coloro che credono in Cristo la calpestano, come un’ombra che non esiste. Essi preferiscono morire piuttosto che rinnegare la loro fede in Cristo, perché sanno veramente che, alla loro morte, non periscono, ma vivono, e diventano incorruttibili, grazie alla risurrezione. Ed ora che le angoscie della morte si sono dissipate, a rimanere morto è solo il diavolo, lui che un tempo si serviva della morte per aggredire malvagiamente gli uomini! Ed eccone la prova: prima di credere in Cristo, gli uomini temono la morte, che sembra loro terribile. Ma quando prendono a credere in lui e nella sua dottrina, si preoccupano così poco della morte, che si slanciano verso di lei con ardore, divenendo così i testimoni della vittoria riportata su essa dal Salvatore nella sua risurrezione. […] Se un tiranno è stato vinto da un Re valoroso, e giace ora con mani e piedi legati, tutti i passanti se ne ridono, lo percuotono e lo fanno a pezzi, senza temere più la sua ira e la sua crudeltà: e ciò grazie al Re che l’ha ridotto alla ragione. Allo stesso modo, la morte vinta e umiliata dal Salvatore in Croce, ha i piedi e le mani legati, e tutti coloro che camminano in Cristo la calpestano. Essi rendono testimonianza al Cristo e si burlano della morte, usando le parole scritte un tempo contro di lei : “O morte, dov’è la tua vittoria ? O inferno, dov’è il tuo pungiglione?”. È questa una prova trascurabile dell’impotenza della morte? (Atanasio, De Incarnatione).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 23 Novembre 2008ultima modifica: 2008-11-23T23:59:00+01:00da fraternidade
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