Giorno per giorno – 20 Febbraio 2008

Carissimi,
“Potete bere il calice che io sto per bere?” (Mt 20, 22). Gesù lo chiede ai due avventati discepoli che gli stanno chiedendo qualcosa, tipo due seggi in parlamento, o due poltrone nel prevedibile governo che inaugurerà il suo regno. Perché ogni regno che si rispetti deve avere il suo bel governo. E Gesù, per un attimo, si dev’essere sentito perduto. Tre anni d’insegnamento buttati a mare. Ecco i risultati. Poi, però, si riprende subito, e pacatamente, torna a dire le cose di sempre. E getta lì quella frase sul calice. Il cui senso sarà chiaro più tardi. A loro, come oggi dovrebbe esserlo a noi. Possiamo bere il calice che Lui ha bevuto? Come Lui lo ha bevuto. Il calice è il calice della vita che noi riceviamo dalle mani del Padre. Pieno di tutte le cose che la vita ci ha riservato: il dono originario e i doni che sono seguiti, i nostri affetti, le amicizie, i sogni, le lotte, le conquiste, ma anche le durezze sopportate, le sconfitte, le paure, i silenzi, le solitudini, l’abbandono, il buio. Il tutto attraversato dall’alito di Dio. Anche quando avremmo giurato che non c’era più, né forse c’era mai stato. E magari gli si diceva a denti stretti: ti credo ancora per oggi, poi mai più. Noi tentati di infedeltà. Lui, invece, lì, fedele. E se si è potuto tornare a parlargli è solo perché improvvisamente l’abbiamo scoperto più povero di noi. Lui il grande Povero. Che si è venduto pure la camicia e la pelle perché noi si potesse avere un avvenire migliore. Ma non è colpa sua. Oh, sì, verrà il giorno, ma intanto. Intanto i poveri fanno scuola. Loro, sacramento di Dio. Senza lamenti o moine. A rischio di vita, ogni giorno. Per la vita degli altri.

A dire la verità, per il calendario cadeva ieri, noi, però, la ricordiamo oggi: è la memoria di Rabbi Elimelech di Lisensk , mistico ebreo.

1903304912.jpgElimelech, nato in Galizia (Polonia) nel 1717, era, con il fratello maggiore Sussja, figlio del Rabbi Eliezer Lipman e di sua moglie Miroush, persone conosciute per la loro bontà e generosità. Insieme, i due fratelli, in gioventù si diedero ad una vita di peregrinazioni senza meta. Poi, le loro strade si divisero: Sussja continuò ad essere l’inquieto ed estatico “folle di Dio”, e Elimelech, alla scomparsa di Rabbi Dov Bär, il Grande Magghid, divenne capo della comunità chassidica, facendosi conoscere per la “conoscenza intuitiva delle persone che lo avvicinavano, delle loro manchevolezze e delle loro pene, così come dei mezzi per guarirle”. Nella memoria del popolo, rimase così presente come “il medico delle anime, l’esorcizzatore dei demoni, il consigliere, la guida e il taumaturgo”. Rabbi Elimelech morì a Lisensk il 21 Adar I 5546 (coincidente, quell’anno, con 19 febbraio 1786), lasciando tre figli, Rabbi Elazar di Lisensk, Rabbi Lipa Eliezer di Chemelnick, Rabbi Yaakov di Maglanitza e due figlie, Esther Etil e Mirish.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Geremia, cap. 18,18-20; Salmo 31; Vangelo di Matteo, cap. 20,17-28.

La preghiera del mercoledì è in comunione con tutti gli operatori di pace, quale che ne sia il cammino spirituale o la filosofia di vita.

È tutto per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un fioretto di Rabbi Elimelech di Lisensk, tratto da “I racconti dei chassidim” (Garzanti) di Martin Buber. È il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Negli ultimi due anni della sua vita Rabbi Elimelech mangiava e beveva pochissimo, e anche quel poco soltanto per le insistenze dei suoi. Una volta che suo figlio, Rabbi Eleazar, lo pregò piangendo di mangiare un po’ di più per mantenersi in vita, disse con un sorriso sulle labbra: “Ah, che rozze pietanze mi servite! Se potessi avere quella farinata che una volta mi fu servita nella piccola osteria rossa sul Dniester, al tempo dei viaggi con mio fratello Sussja!”. Qualche tempo dopo la morte di Rabbi Elimelech, suo figlio si mise in viaggio per trovare la piccola osteria rossa sul Dniester. Arrivato, chiese alloggio per la notte e domandò che ci fosse per cena. “Siamo povera gente”, disse la moglie dell’oste. “Noi diamo ai contadini aquavite in cambio di farina e legumi, mio marito ne porta in città la maggior parte e la baratta con acquavite, e il resto la consumiamo noi. Così non posso offrirvi altro che una farinata”. “Preparamela subito”, disse Rabbi Eleazar. Quand’ebbe detto la preghiera della sera, trovò la minestra sulla tavola. Finì il piatto e ne chiese un secondo, finì anche quello e se ne fece dare un terzo. Quand’ebbe vuotato anche quello, chiese alla moglie dell’oste: “Ma dimmi, che cos’è che hai messo nella minestra e che la rende così saporita?”. “Credetemi, signore”, rispose la donna, “non vi ho messo niente”. Ma poiché egli insisteva, alla fine disse: “Bene, se vi piace tanto, sarà merito del paradiso”. E raccontò: “Sono passati molti anni da quando un giorno due uomini devoti si fermarono qui, e si vedeva in faccia che erano veri zaddikim. Poiché non avevo da servir loro altro che una farinata, mentre la cuocevo pregai Dio: ‘Signore del mondo, io non ho altro e tu hai tutto, abbi compassione dei tuoi servi stanchi e affamati e metti nella loro minestra un po’ di erbucce del tuo paradiso!’. E quando la minestra venne in tavola, i due me ne vuotarono la scodella grande una volta e poi un’altra, e uno di loro mi disse: ‘Figlia, la tua minestra sa di paradiso’. E oggi ho pregato di nuovo”. (Martin Buber, I racconti dei chassidim).

E che una volta o l’altra succeda così anche a noi. O, forse, è già successo! Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 20 Febbraio 2008ultima modifica: 2008-02-20T23:49:00+01:00da fraternidade
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