Giorno per giorno – 11 Febbraio 2017

Carissimi,
“In quei giorni, essendoci di nuovo molta folla che non aveva da mangiare, Gesù chiamò a sé i discepoli e disse loro: Sento compassione di questa folla, perché già da tre giorni mi stanno dietro e non hanno da mangiare. Se li rimando digiuni alle proprie case, verranno meno per via; e alcuni di loro vengono di lontano” (Mc 8, 1-3). In questo consiste il credere in Dio, il Dio di Gesù Cristo. Se noi non abbiamo ancora maturato questa sensibilità, che ci permette di “udire” le necessità della gente e di temere che, se non facciamo qualcosa, possano venir meno, considerando che alcuni (?) di loro “vengono di lontano”, non abbiamo capito niente di Dio. La fede su cui siamo stati innestati è quella proclamata nell’ “Ascolta, Israele: il Signore nostro Dio, il Signore è Uno”, non ce n’è altri, ed è l’Uno per tutti, l’Uno in ascolto di tutti, l’Uno in ascolto del clamore dei poveri (Es 3, 7). La prova che siamo stati guariti dalla nostra sordità (se ne era parlato nel vangelo di ieri), cui ci conduce la nostra idolatria, spesso travestita da religione, o il nostro ateismo, che ci racchiude nella nostra indifferenza, è data dal nostro partecipare all’ascolto che Dio riserva ai poveri. E dall’essere mossi a compassione. E dal preoccuparci di saziarne le fami, diventando per loro cibo con Lui. Quattromila ne ha saziati Gesù, quel giorno. Ogni giorno, deve saziarli la comunità cristiana. Mille, cioè tutti, provenienti dai quattro punti cardinali. Questo è il significato dell’Eucaristia, il banchetto degli inclusi, del “tutti dentro”. E se ci sarà qualcuno che deve essere messo alle porte, è chi non ha la veste adeguata, cioè chi esclude gli altri (cf Mt 22, 11-13). Su questo, Gesù non transige.

La Memoria di Nostra Signora di Lourdes, che la Chiesa cattolica celebra oggi è la maniera per ricordare il rendersi presente della madre di Gesù nella nostra vita e in quella della società e magari della Chiesa, per insegnarci come si dovrebbe essere. Presenti sempre anche noi ad ogni necessità altrui. Ridando vita nella nostra storia al Principio della cura. La memoria trae origine dalle apparizioni avute, tra l’11 febbraio e il 16 aprile 1858, da una giovane contadina analfabeta, Bernadette Soubirous. Una giovane sconosciuta, che Bernadette battezzò subito col nome di Aquerò (Quella là), in seguito le si rivelò con un nome ben più difficile a dirsi e ad intendersi: “Que soy era Immaculada Councepciou”. Aggiunse poi che era tempo che il mondo si desse una mossa. Ma il mondo sembra aver continuato imperterrito. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Noi in questo giorno ricordiamo anche Abraham Johannes Muste, profeta di pace e di nonviolenza, e di Marie-Dominique Chenu, teologo del Concilio.

Abraham Johannes Muste nacque l’8 gennaio 1885 a Zierikzee (Olanda), figlio di Adriana Jonker e Martin Muste. All’età di sei anni si trasferì con la famiglia negli Stati Uniti, di cui acquisì la cittadinanza. Sposato ad Anna Huizenga, nel 1909 fu ordinato pastore della Chiesa riformata. Ma, presto, deluso dagli insegnamenti di questa, passò ad essere pastore della Chiesa congregazionale, lasciandosi poi conquistare dal misticismo pacifista della Società degli Amici (quaccheri). A cavallo tra gli anni venti e trenta, si coinvolse nelle lotte del movimento sindacale, scivolando su posizioni marxiste e trozkiste. Finché, un giorno del 1936, entrando in una chiesa durante un viaggio in Europa, sentì più forte che mai la convinzione che era la chiesa la sua vera casa e il suo cammino, con la proposta evangelica della pace e della nonviolenza. Negli anni della proliferazione nucleare, Muste si persuase che il mondo fosse entrato in una nuova epoca buia e che i cristiani erano chiamati a creare piccole oasi di coscienza e ragionevolezza. Ad un cronista che gli chiese un giorno se pensava di cambiare il mondo facendo veglie all’esterno delle basi nucleari, rispose: “Non lo faccio per cambiare il mondo. Lo faccio per impedire al modo di cambiarmi”. Ripetutamente arrestato per le manifestazioni e proteste organizzate, fu anche uno degli artefici dell’opposizione alla guerra in Vietnam. Nel 1966, già ottantaduenne fu arrestato a Saigon, per aver tentato di manifestare davanti all’ambasciata Usa. Morì l’11 febbraio 1967 dopo esser tornato da un viaggio in Vietnam del Nord, dove potè testimoniare di persona gli effetti dei bombardamenti nordamericani. Soleva dire: “Non esiste una via alla pace, la pace è la via”.

Marcel Chenu era nato a Soisy-sur-Seine (Francia), il 7 gennaio 1895. Attratto dalla vita contemplativa, dalla liturgia, dallo studio e dalla vita di comunità, come egli stesso ebbe a confessare in seguito, entrò, diciottenne, nell’Ordine Domenicano, presso il convento di Le Saulchoir, a Kain, in Belgio. Qui fece la sua prima professione religiosa nel 1914, assumendo il nome di Marie-Dominique. Si recò, poi a Roma, a studiare teologia, all’Angelicum, sotto la guida del padre Réginald Garrigou-Lagrange. Fu ordinato presbitero nel 1919. Tornato in patria, l’anno successivo, fu nominato professore al Centro di Studi di Le Saulchoir (che nel 1939, si sarebbe trasferito a Étiolles, nei pressi di Parigi), dove rimase fino al 1942, quando fu costretto ad allontanarsene per la condanna del suo libro Une École de Théologie, uscito nel 1937 e diffuso per altro soltanto in sette/ottocento esemplari tra gli amici e gli allievi. La condanna intendeva colpire le proposte innovative di Chenu sulla necessità di diversi “stili teologici”, imposta dai mutamenti epocali in atto. Lasciato l’insegnamento di Le Saulchoir, Chenu fu assegnato al convento parigino di Saint-Jacques, dal quale fu allontanato nel febbraio del 1954, e inviato a Rouen, per il suo coinvolgimento nella questione dei preti operai. Solo nel giugno del 1962 farà ritorno definitivamente a Parigi. Dal settembre al dicembre dello stesso anno, fu chiamato come perito al Concilio Vaticano II. La Costituzione conciliare Gaudium et Spes risente del contributo della sua teologia dell’incarnazione, della creazione, della praxis, della storia. Quando Chenu compì 70 anni, fu festeggiato alla presenza del cardinal Feltin, che lo lodò per aver accettato umilmente e senza disobbedire le sanzioni imposte da Roma. Chenu balzò in piedi e disse: “Eminenza, non era obbedienza, perché l’obbedienza è una virtù morale, piuttosto mediocre. Era la fede che avevo nella parola di Dio, davanto alla quale gli scontri e gli incidenti di percorso non sono niente. È perché avevo fede in Gesù Cristo e nella sua Chiesa”. Dopo il 1966, padre Chenu visse nel convento di Saint-Jacques, dove morì l’11 febbraio 1990.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Genesi, cap.3, 9-24; Salmo 90; Vangelo di Marco, cap.8, 1-10.

La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

Anche, per stasera, è tutto. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano di Marie-Dominique Chenu, tratto dal suo libro “Il Vangelo nel tempo” (Ave). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Sebbene meno profondamente inserite nella vita personale dell’uomo, le solidarietà di lavoro, le solidarietà economiche in generale, per il fatto stesso che interessano un bene umano posseduto in comune, e nella misura in cui questo comune possesso s’intensifica a causa del grado di socializzazione di tale bene comune, diventano materia assimilabile per il cristiano; il loro valore è alimento di qualità per la nostra vita divina, il loro fardello è materia di redenzione nella sofferenza liberatrice di Cristo, la loro struttura è il sostegno d’una collaborazione in cui la giustizia e l’amicizia trovano norma e stabilità. Lungi dunque dall’evadere da queste strutture sociali e da queste diverse solidarietà (classi, nazioni, razze, poco importa), col pretesto di conservare purezza spirituale ad una specie di uguaglianza mistica, la fraternità cristiana aspira a penetrarle, a incarnarsi in esse, come un’anima si incarna nel proprio corpo, come Dio si è incarnato nell’uomo. Costante interferenza di due realtà complementari, fraternità e classi sociali, che non soltanto si sovrappongono per un abile compromesso, ma si richiamano e si coordinano in un’unica economia. Non cediamo, neppure in apparenza, alla loro disgiunzione, sotto pena di ascoltare la brutale esclamazione, ma giusta nella sua sconsideratezza, d’un bravo operaio che ascoltava per l’ennesima volta un pio elogio della carità fraterna: “Son duemila anni che ce lo ripetono!”. Noi dovremmo mostrare come sia necessario che le classi sociali si aprano alla carità fraterna, sotto pena altrimenti di disgregare la comunità umana e dissolversi esse stesse; ma occorre prima comprendere che la fraternità cristiana per essere coerente con se stessa e per non svaporare in un sentimentalismo inconsistente, richiede, ispira, santifica queste solidarietà di classe nelle quali sono salvaguardate delle vere ricchezze umane. È anche qui che potremo constatare il realismo autentico di questa fraternità, e misurare esattamente la sua integrità dalla capacità che essa avrà di diffondersi in quel che v’è di più pesante, di più spesso nell’uomo: l’economico e le divisioni che impone alla comunità. Lo spirito infatti penetra in ogni cosa, e se l’uomo ha potuto magnificamente incarnare la propria intelligenza nella materia delle macchine, può altresì, deve incarnare la sua anima nei più modesti e nei più potenti ingranaggi della produzione. (Marie-Dominique Chenu, Il Vangelo nel tempo).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 11 Febbraio 2017ultima modifica: 2017-02-11T22:16:28+01:00da fraternidade
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