Carissimi,
“Gesù disse loro: Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?” (Mc 10, 38). È spietato Marco nel mostrarci l’insipienza di Giacomo e Giovanni. Coloro che, con Pietro, secondo la testimonianza di Paolo, saranno in seguito ritenuti le colonne della chiesa (Gal 2, 9). Gesù aveva appena finito di preannunciare “quanto gli sarebbe accaduto” – e non era uno scherzo, si trattava della sua morte – ma loro non l’ascoltavano. Come noi del resto non l’ascoltiamo. A noi, Lui piace di più formato immaginetta. Non vogliamo sentire parlare della sua morte. E rispetto ai due malcapitati discepoli, abbiamo oltretutto il vantaggio di sapere già come va a finire. O almeno così crediamo, avendo ridotto la sua passione e morte ad una favoletta da bambini, con l’immancabile lieto fine della risurrezione. Dunque, Lui gli parla della morte, e loro gli chiedono del potere. E Lui, paziente o impaziente, non lo sappiamo bene, gli dice: non avete capito niente. Neppure quando loro gli rispondono che, sì, diamine!, sapranno bere del suo calice ed essere battezzati del suo battesimo. No, sono lontano mille miglia dal capire cosa significhi davvero questo benedetto figlio di Dio, che avevano deciso di seguire, generosamente, sì, ma anche, in vista di qualche sostanzioso tornaconto. Gesù non se la prende più di tanto, sa che finiranno per farsi le ossa e avranno modo di riscattarsi. Ma noi? Così ottusamente legati alle categorie del mondo? Noi siamo casi perduti. Non tutti, è chiaro. C’è tra noi chi vive la lezione di Cristo. Lo sperimentiamo ogni giorno. I più poveri tra noi sono poveri al punto che non hanno neanche le parole per dirsi e per dire le cose che vorrebbero, ma si fanno riconoscere da come sono: i più laboriosi, dedicati, costanti, silenziosi, pazienti, pronti a servire, ad occuparsi degli altri con cura materna, a spendersi per intero, anche solo per la riuscita di una festa. In quello che sanno fare, naturalmente. “Gli risposero: Lo possiamo”. I poveri sanno ciò che rispondono, sono della Sua razza. Per gli altri, quelli che forse lo sono stati, poveri, tanto tempo fa, o chi non lo è mai stato, è un po’ più difficile capire la domanda di Gesù e dare la risposta giusta. Cadranno, ricadranno. Forse, un giorno, impareranno. “Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10, 45).
I testi che la liturgia di questa XXIX Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Isaia, cap.53, 10-11; Salmo 33; Lettera agli Ebrei, cap.4, 14-16;Vaneglo di Marco, cap.10, 35-45.
La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.
Anche se la celebrazione della Domenica mette un po’ la sordina alle memorie del giorno, noi ricordiamo Luca evangelista e il vescovo Giacomo Lercaro, profeta di una Chiesa povera con i poveri.
Noi ci congediamo qui. “La Chiesa e la Pace” è il titolo di un discorso pronunciato dal Card. Giacomo Lercaro all’Archiginnasio di Bologna il 26 aprile 1967, nel quadro di una serie di conferenze illustrative della Costituzione conciliare “La Chiesa nel mondo contemporaneo” (Gaudium et Spes). Pubblicato nella rivista Testimonianze n.94, del maggio 1967, è stato incluso nel libro “Discorsi sulla Pace” (Edizioni San Lorenzo), edito in occasione del centenario della nascita. Noi ve ne proponiamo il brano conclusivo come nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Nella Genesi la violenza appare come conseguenza prima e il procedere stesso del peccato, cioè l’effetto dell’ingresso di Satana nella storia degli uomini. Pertanto nel mondo, violato da Satana, ogni atto nuovo di violenza immette energia satanica nella storia: energia che l’uomo non può più dominare. Ed è per questo che la violenza, la guerra – anche quando apparisse motivata, per così dire, secondo ragione – sempre genera nuova violenza e guerra: in crescendo. La storia dell’umanità dell’ultimno secolo lo comprova in modo impressionante. Essa è una verifica, a contrario, del Nuovo Testamento: secondo il quale l’unico modo per vincere la violenza non è rispondere con un’altra violenza “difensiva”, ma uscire dal sistema della violenza inserendosi nell’economia della grazia, nell’ordine dello Spirito che solo può dissolvere l’energia demoniaca e arrestare il mistero di iniquità, che è all’opera nel profondo della storia umana (2Ts 2, 7). Chi alla violenza subito contrappone un’iniziativa di pace, affida a Dio la risoluzione del problema e lo provoca ad agire: immette cioè nella storia un’energia divina che, sola, sarà capace di ristabilire la giustizia “vincendo il male con il bene” (Rm 12, 14-21). Certo questo non è buon senso; non è neppure realismo. In verità non è di quel cattivo buon senso che continua nella più tragica impotenza a mantenere l’umanità nell’estremo rischio dell’autodistruzione. Non è quel crackpot realism, quel “realismo rompitutto”, che chiude gli occhi non solo di fronte alla fede, ma anche di fronte alla storia del passato e del presente. Ma è l’unico realismo che, nella luce della fede in Cristo Dio, illumina, libera, e salva anche la storia degli uomini. (Card. Giacomo Lercaro, Discorsi sulla Pace).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.