Carissimi,
“Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa” (Mc 4, 26-27). Giovedì sera eravamo tutti (no, quasi tutti) a casa di Né, che avevamo scelto anche perché Djari compiva gli anni proprio quel giorno, e gli anniversari sono tra le cose che riescono meglio alla Comunità. La nostra è tutta gente che è stata, e in parte ancora è, della roça. Gente dei campi che conosce bene i tempi della semina, dell’attesa e del raccolto. A cui piacciono queste parabole contadine di Gesù, che glielo fanno sentire più loro. Come fosse ancora presente a ripeterci l’esperienza comune, che traveste però il suo mistero. Già, il Regno, la Buona Notizia, che è Lui. Gesù sapeva di essere quel seme. E sapeva che il seme dev’essere gettato nella terra. E che proprio quando apparentemente muore, è allora che in realtà nasce, piano piano cresce, si sviluppa e si moltiplica. Forse è così anche oggi. Forse è così sempre. Il Regno. Il Regno sembra così lontano e assente, nella realtà che ci circonda, così diverso da e contrario ai modelli di vita che ci vengono proposti come ragionevoli e vincenti, che uno è portato a dubitare anche solo della sua possibilità. Come chi contadino non è può dubitare del lavorio segreto del seme sotto terra. Il regno, invece, come il seme, è solo nascosto. Il suo stile è quello. Chi si sia noi, in questa parabola è poco chiaro, e forse è giusto che sia così. E allora, per qualcuno, noi siamo la terra che custodisce il seme della Parola e le permette di mettere radici, di schiudersi, di crescere e di portare frutto, per l’altro siamo noi il seme che dice la necessità del nostro scomparire, del nostro venir meno a noi stessi per rinascere come vita per gli altri; per un altro ancora siamo il seminatore, a cui è stato affidato il seme da seminare e lo semina con fatica ma anche con l’allegra fiducia di chi sa già come va a finire. Il seme è Gesù e la vita di Gesù in noi. È anche questa comunità, su cui noi ci si può anche ridere su, perché vale niente. Il Regno è questo gigante umile e buono di Djari, la saggezza di dona Dominga, la timidezza di Adalcino, la tristezza [di questi giorni] di Eliane, persino l’assenza di Nesona, la Letícia (di nome e di fatto) di Divina, le preoccupazioni di Né, il buonumore di Valdecí, l’euforia di Daiane, e questa squadra di bambini che fino a ieri gattinavano e ora corrono già di qua e di là e chi li ferma più. Il Regno è ciascuno di loro e noi tutti insieme. Quando ogni “io”, ridotto al più piccolo dei semi, scompare sotto terra, e rinasce come albero grande per offrire rifugio e riparo a quanti ne abbisognano e ne sono alla ricerca.
I testi che la liturgia di questa XI Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Ezechiele, cap.17, 22-24; Salmo 92; 2ª Lettera ai Corinzi, cap.5, 6-10; Vangelo di Marco, cap.4, 26-34.
La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e Chiese cristiane.
Oggi noi si fa memoria di Mauricio Silva Iribarnegaray, piccolo fratello martire in Argentina, e di Cosme Spessotto, martire in El Salvador.
L’amico Franco di Cento ci partecipa il Battesimo della nipotina Alba, somministrato oggi da fr. Ricardo Perez, del convento servita di Montefano. Il p.f. Yvo ci segnala il Capitolo generale (che è anch’esso una specie di full immersion, ossia di battesimo) dei Piccoi fratelli del Vangelo che si sta tenendo a Gubbio. L’uno e l’altro evento sono preghiera dello Spirito sul mondo, che ci può solo riservare piccolissime (e perciò grandi) sorprese.
A noi, di Paolo Giuntella, non era mai capitato di leggere nulla. Su di lui, conoscevamo solo quanto ne aveva scritto tempo fa Giovanni Bachelet nella prefazione al libro “Strada verso la libertà – Il cristianesimo raccontato ai giovani” (Paoline), scritto da Giuntella nel 2004. Poi oggi nel bel sito di Fine Settimana ci siamo imbattuti in un suo breve inedito, dal titolo “Il vero rischio è la non speranza”, pubblicato dall’Osservatore Romano lo scorso 22 maggio, nell’anniversario della morte. In cui ci siamo rispecchiati totalmente. E che ci pare abbia a che vedere con la parabola del seme. Così, nel congedarci, ve ne proponiamo un brano come nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Per i cristiani il limite invalicabile resta la concezione autentica e non sdolcinata della speranza cristiana: la tensione escatologica che ridimensiona ogni illusione e ogni progetto umano. Tutto questo neo-cristianesimo senza Parola, senza Vangelo, ridotto – come ci siamo detti tante volte ma giova pur sempre ripeterlo – ad identità culturale, addirittura ad identità geopolitica, questo cristianesimo senza stranieri, senza samaritani e samaritane, senza prostitute, senza pubblicani e senza Zaccheo, senza adultere e senza poveri, dunque senza speranza, senza riscatto, senza giustizia, senza eguaglianza, senza fraternità, senza libertà – quella vera, quella del grido degli schiavi “Freedom, Freedom over me”, non quella dei neo-liberisti che vogliono liberarsi solo dalle regole, dalle costituzioni scritte, dall’indipendenza ed autonomia dei poteri – tutto questo cristianesimo dei valori proclamati e non vissuti, dei valori “ideologici” e non biblici, dei valori conservatori, ebbene questo cristianesimo post-cristiano e senza speranza è il vero problema. La lezione dei martiri e dei profeti ci porta a una necessaria, non rinviabile scelta di campo: la strada della felicità, quella dell’avventura cristiana. La Croce è il segno eterno – nella storia ma oltre la storia, nel tempo ma oltre il tempo e lo spazio – che il Dio della nostra esperienza di fede non è il Dio del potere, della potenza, del dominio, ma il Dio Amore della apparente sconfitta nella storia, nel tempo, il Dio crocifisso. Per questo noi non dobbiamo avere paura della depressione, dei momenti di bassa in cui vediamo tutto nero, dal piano personale a quello politico. […] Se non attraversassimo momenti cupi saremmo perfetti, cioè non saremmo umani, perché la nostra è condizione di finitudine e di limite. Solo avvertendo tutto l’abisso, e tuttavia tutti i raggi di luce, tutto il dolore ma anche tutte le energie di allegria, innamoramento, estasi, della nostra esperienza carnale e dunque storica, possiamo credere – e possiamo farlo con la ragione, con l’intelligenza razionale – in un riscatto, nella redenzione, della chiamata ad una Città Futura pienezza dei tempi, speranza compiuta finalmente, perciò pienezza di umanità, anzi di divino-umanità. (Paolo Giuntella, Il vero rischio è la non speranza).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.