Giorno per giorno – 10 Settembre 2008

Carissimi,
le beatitudini sono il ritratto di Gesù, ma, con Lui, anche di Dio. Ed esse sono tutte riassumibili nella prima: Felici voi, poveri! (Lc 6, 20). Felici perché? Non perché erediteranno il paradiso, come una lettura distorta e interessata, in uso in altri tempi, avrebbe voluto renderli convinti. Il regno di Dio, infatti, non si riferisce al paradiso, ma alla presenza operante di Dio già qui e adesso. “Felici voi” sarebbe, allora, una sorta di “autopresentazione di Dio”: molto piacere, Io sono con voi, sono dei vostri! Sono con voi, perché, forse dopo tanto tempo ve lo siete scordati, ma io sono quello che “vede la sofferenza del povero, ascolta il suo grido e scende per liberarlo e condurlo ad una vita felice” (cf Es 3, 7-8). La teologia della liberazione e l’opzione dei poveri non sono scelte opinabili di qualche teologo latinoamericano, sono la scelta senza alternative del Dio della Bibbia, del Dio di Gesù, (prendere o lasciare: se pensate ad altro, se credete diversamente, il buon Dio probabilmente alla fine vi perdonerà anche, ma siete ancora “pagani”). E il fatto che Dio (e quelli come Lui) sia dalla parte dei poveri, è dato dai “segni” del Regno, se e quando esso accade: chi ha fame è saziato (e si parla di chi ha letteralmente la pancia vuota, non di chi ha fame della parola di Dio, come diceva stasera Maria Ferreira), chi piange sarà consolato (e noi ci dobbiamo dare una mossa, se no, non siamo operai del Regno, ma servitori del diavolo), e c’è chi, per realizzare tutto questo, è disposto ad essere odiato, perseguitato, calunniato e messo in croce. Già, ma questo è Gesù! Infatti, perché il Regno di Dio, Dio che regna in mezzo a noi, come Colui che serve, è Gesù. Ma, allora, noi, voi, alla Chiesa di chi apparteniamo? Alla Chiesa di Colui che “da ricco che era si è fatto povero” per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà” (cf 2Cor 8,9)? Alla Chiesa che con Paolo può confessare: “Siamo poveri, eppure arricchiamo molti. Non abbiamo nulla, ma possediamo tutto” (2Cor 6, 10)? O non ci guarderà piuttosto Gesù con commiserazione, dicendo: poveretti voi che osteggiate le relazioni nuove del regno e negate il suo Dio, perché avete fatto della ricchezza-che-va-in-malora il vostro idolo, e vi preoccupate solo della vostra pancia piena e ridete beoti mentre il mondo va in rovina e i vostri simili dicono solo bene di voi e tessono le vostre lodi sui loro giornali? Poveretti, cioè, alla fin fine, felici anche voi, perché fallirete, sarete smascherati, finirete in povertà, e, allora, solo allora, sarò anche dalla vostra parte.

Oggi noi si fa memoria di Hillel, l’Anziano, maestro in Israele.

Hillel era nato in Babilonia, forse verso l’80 a.C., in una famiglia di ascendenza davidica. Dopo aver studiato la Torah nella cittá natale, si era trasferito, già adulto, a Gerusalemme, dove lavorò duro per mantenere la famiglia e per concedersi di frequentare nel contempo la scuola di Shemaià e Avtalion, rispettivante presidente del Sinedrio e capo del Tribunale. Verso l’anno 30 a.C., durante il regno di Erode il Grande, Hillel fondò la scuola che prese il suo nome (bet Hillel), contrapposta a quella di Shammai. La scuola di Hillel, assai più liberale della seconda, era basata su un’interpretazione indulgente della Legge, senza tuttavia allontanarsene o tradirla. Divenuto a sua volta presidente del Sinedrio, fu lui che per primo insegnò ad un candidato alla conversione la cosiddetta Regola d’Oro (che Gesù avrebbe fatto sua), una definizione sintetica della Legge: “Non fare agli altri ciò che non vuoi che essi facciano a te. Questa è tutta la Torà, il resto è solo commento”. Seppe coniugare sapienza e umiltà, giustizia e amore profondo alle creature, ragione e religione del cuore. Morì nel 10 d. C., quando Gesù, a Nazareth, era ancora solo un adolescente. Che tutto lascia credere dovesse conoscere bene gli insegnamenti del gran vegliardo. È curioso il fatto che, di tutte le correnti presenti nel giudaismo del 1° secolo, le uniche a sopravvivere sono quelle che hanno la loro origine nel pluridecennale magistero di Hillel e nella parabola fulminea ed efficace del Rabbi di Galilea, che permearono, nei secoli successivi, fino ai nostri giorni, la storia del giudaismo e del cristianesimo.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
1ª Lettera ai Corinzi, cap.7, 25-31; Salmo 45; Vangelo di Luca, cap.6, 20-26.

La preghiera del mercoledì è in comunione con tutti gli operatori di pace, quale che ne sia il cammino spirituale o la filosofia di vita.

Secondo i nostri fratelli ebrei, il vero significato di un passo della Torà non si può comprendere che tramite il ricorso a quella che è chiamata la Torà orale, cioè l’insegnamento fissato nella mente e nella prassi del popolo, che la tradizione vuole risalisse, attraverso un’ininterrotta catena di maestri, su su, fino a Mosè. Tale insegnamento sarebbe stato in seguito raccolto nella Mishnà e, unito ai commenti e alle applicazioni pratiche di altri studiosi della Legge (Ghemarà), sarebbe finito a costituire il Talmud, che resta così l’autorità decisiva in ordine alla pratica religiosa. Forse, può essere interessante notare che quand’anche, nel Talmud, l’interpretazione della Scrittura presentasse spesso una notevole divergenza di opinioni tra i diversi Maestri, questo non comportò mai il venir meno del rispetto che essi sentivano di doversi reciprocamente. Nonostante questa grande libertà d’interpretazione, c’è da dire che, sul piano dell’applicazione pratica, la regola che veniva applicata era, alla fine, quella del Maestro che godeva maggior autorevolezza. Nel caso delle divergenze esistenti tra le scuole di Shammai e Hillel, per esempio, era riconosciuta la maggiore autorità di quest’ultimo, sia perché costui, nello stabilire una regola, teneva sempre conto dell’opinione contraria, sia per la sua pazienza, larghezza di vedute e magnanimità. Ci sarebbe, forse, più di uno spunto per aiutarci, in un dialogo continuo con la Parola di Dio, a convivere, rispettare e valorizzare le diverse posizioni presenti nella Chiesa e tra le Chiese. A illustrare questo spirito e questa libertà nell’interpretazione delle Scritture, vi proponiamo qui di seguito un passo del Trattato Berakhot del Talmud babilonese. È per stasera il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La scuola di Shammai e quella di Hillel avevano differenti opinioni riguardo come bisognasse leggere lo Shemà. La prima sosteneva che il verso “Quando ti coricherai e quando ti alzerai” andava preso alla lettera; di sera lo Shemà va detto stando coricati, la mattina stando in piedi. La scuola di Hillel, al contrario, sosteneva che il versetto in questione ci indica solamente i tempi per la recitazione, e cioè sera e mattino, ma ognuno è libero di recitarlo in qualsiasi posizione. Accadde dunque che una sera due Maestri, appartenenti alle due differenti scuole, alloggiassero assieme nella stessa stanza di una locanda, dove si erano fermati per la notte. R. Ishmael (della scuola di Shammai) si era già coricato; R. El’azàr ben Azaryà (della scuola di Hillel) invece stava ancora in piedi. Ma quando questi si stese comodamente sul letto per recitare lo Shemà, stranamente R. Ishmael si alzò in piedi per recitare la stessa preghiera. Una volta finita la recitazione, R. El’azàr si rivolse al suo compagno: “Ishmael, amico mio, il tuo comportamento mi ricorda l’aneddoto del tizio che avendo ricevuto un complimento sulla sua lunga e bella barba, decise all’istante di tagliarsela! Quando ti trovavi già a letto, ero certo che avresti detto lo Shemà in questa posizione, alla maniera di Shammai. Con grande sorpresa, invece ti sei alzato. Ma secondo la vostra opinione, lo Shemà, di sera, si recita coricati”. Rispose allora R. Ishmaèl: “Hillel, il vostro maestro, insegna invece che si può dire in qualsiasi posizione. E dal momento che non sono obbligato a dirlo coricato, mi sono dunque alzato”. “Ma allora perché non l’hai detto coricato, la scuola di Hillel insegna che anche in questa posizione si può recitare lo Shemà!”. Rispose ancora più stupito R. El’azàr. “Questa è una buona domanda. La risposta è semplice: siccome è stato stabilito che dobbiamo sempre rispettare l’opinione di Hillel quando si tratta di arrivare alla halakhà, cioè alla regola pratica, temevo che altri vedendoci recitare lo Shemà entrambi coricati, potessero arrivare alla conclusione che l’opinione da seguire fosse quella di Shammai, e questo sarebbe stato un grave ostacolo per le generazioni a venire”. (T.B., Berakhot 10b.11a).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 10 Settembre 2008ultima modifica: 2008-09-10T22:13:00+02:00da fraternidade
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