Giorno per giorno – 25 Ottobre 2017

Carissimi,
“Qual è dunque l’amministratore fedele e saggio, che il Signore porrà a capo della sua servitù, per distribuire a tempo debito la razione di cibo? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro. In verità vi dico, lo metterà a capo di tutti i suoi averi’ (Lc 12, 42-44). A dire il vero, il testo originale non dice genericamente che “lo troverà al suo lavoro”, ma “troverà che fa così”, cioè, lo troverà a distribuire il cibo nel tempo [dovuto]. Questo è ciò che importa al Signore, e questa è perciò la regola della Chiesa, e la legge di una casa, di una comunità, di una società, che si regga sulla volontà di Dio: che il cibo (che è, sì, il pane materiale, da condividere, ma è anche il pane che, sull’esempio di Gesù, siamo chiamati ad essere noi stessi) non manchi a nessuno e non tardi ad essere servito. La parabola di Gesù è per dire come dobbiamo vivere il tempo dell’attesa del suo ritorno. Che è, per altro, sempre in atto: egli si fa presente, anticipa cioè il suo ritorno, in chi ha bisogno di pane, e in chi offre e si offre come pane. Negandolo e negandoci agli altri, rinneghiamo in pratica la nostra fede in Gesù. Equiparati per questo agli infedeli, quand’anche accampassimo esterne professioni di fede, frequenza ai sacramenti, stili di vita virtuosi, o una qualche devozione. Che anzi, sarebbe anche peggio, dato che “il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche” (Lc 12, 47-48). Parola del Signore Gesù. Che è come dire, beati, a questo punto, gli atei e miscredenti. Che spesso, senza conoscerlo, testimoniano il sogno di Dio meglio di noi cristiani.

Oggi facciamo memoria di Henri Perrin, preteoperaio, e di Antonio Llidó, prete al servizio degli ultimi, martire in Cile.

Nato il 13 aprile 1914, Henri Perrin fece parte del gruppo di giovani preti che, durante la II Guerra mondiale, scelsero di accompagnare i lavoratori francesi inviati a lavorare nelle fabbriche tedesche. Lì, lavorò con i suoi connazionali, operando nello stesso tempo come cappellano clandestino. Scoperto, fu imprigionato per un breve periodo e poi rimpatriato. L’esperienza tuttavia lo segnò irreversibilmente. Scoprì infatti la distanza che separava la chiesa dalla classe lavoratrice e, presto, con altri preti che la pensavano uguale, decise che era ora di restituire la chiesa ai poveri e i poveri alla chiesa. Nacque così, nel 1947, con l’approvazione dei vescovi francesi, l’esperimento dei preti-operai. Perrin fu assunto in una fabbrica di plastica. Non rivelò subito la sua identità. Quando comunque i compagni seppero che era prete, la sua maniera d’essere ne aveva già conquistato rispetto, simpatia e cameratismo. Non sarebbe durata a lungo. Il Vaticano nel 1949 emise un decreto che condannava l’adesione dei cattolici ai partiti comunisti e alle organizzazioni ritenute fiancheggiatrici, compresi i sindacati. I vescovi francesi, finché poterono, tergiversarono. Si rendevano infatti conto dell’importanza che la figura dei pretioperai rivestiva nel processo di evangelizzazione del mondo del lavoro e di ri-evangelizzazione della stessa chiesa. E sapevano che non c’era verso di stare in quel mondo, senza assumerne le lotte e gli strumenti organizzativi. Tuttavia, all’inizio del 1954, le insistenti pressioni di Roma posero fine all’esperimento. Molti obbedirono e lasciarono le fabbriche, altri ritennero questo passo un tradimento dei poveri e del Vangelo. Restarono e subirono i provvedimenti ecclesiastici. Lui, il nostro prete, amareggiato, deluso, indignato, non ebbe neppure tempo di decidere. Morì in un incidente di moto, poco più che quarantenne, il 25 ottobre dello stesso anno. Poi sarebbe arrivato il Concilio Vaticano II. E le stagioni successive.

Antonio Llidó era nato a Xábia (Alicante, Spagna), il 29 aprile 1936. Terminati gli studi di Magistero, entrò in seminario nel 1957 e fu ordinato prete nel 1963. I villaggi alicantini di Quatretondeta e Balones (settecento anime in tutto) furono la sua prima destinazione. Lì, con l’aiuto di un maestro e di un gruppo di giovani universitari, elaborò uno straordinario progetto sociale, pedagogico e pastorale, che permise di accompagnare negli studi quaranta ragazzi senza futuro fino alla soglia dell’università. Nel 1967, per aver rifiutato di votare all’ennesimo referendum franchista e dopo aver firmato un manifesto di protesta contro la repressione degli studenti antifascisti, venne mandato per castigo dal suo vescovo come cappelano all’ospedale della marina militare, a El Ferrol. Naturalmente non durò molto. Nel 1969, decise di partire missionario per il Cile, stabilendosi nella città di Quillota, nella diocesi di Valparaiso, dove gli fu affidata la cura della chiesa della Madonna degli Abbandonati e della Medaglia Miracolosa. Conobbe livelli di miseria che gli parvero intollerabili. Scoprì che in una baraccopoli di sole dieci case abitavano 115 bambini. Con un confratello organizzò una manifestazione di protesta contro la costruzione di una nuova palestra in un esclusivo collegio marista della città, che doveva sorgere a poche centinaia di metri da un’altra palestra di un altrettanto esclusivo istituto religioso. Questo gli procurò naturalmente l’inimicizia dei religiosi e del vescovo locale. Era solo l’inizio del suo impegno a fianco dei poveri e delle forze politiche che ne portavano avanti le aspirazioni. Il vescovo gli impose di far ritorno in Spagna, ma Llidó non potè accettare di abbandonare i già abbandonati da tutti. Questa fedeltà gli costò la sospensione a divinis. L’11 settembre 1973, un sanguinoso golpe militare pose precocemente fine al governo di Unità popolare di Salvador Allende, che aveva sollevato tante speranze, e Llidó entrò in clandestinità. Il 1º Ottobre 1974 venne scoperto e arrestato da agenti della DINA, la famigerata polizia segreta di Pinochet. Secondo le testimonianze raccolte, benché ripetutamente torturato, riuscì a mantenersi saldo e imperturbabile, continuando a infondere coraggio agli altri detenuti. Se ne persero definitivamente le tracce il 25 ottobre dello stesso anno, quando la polizia segreta lo prelevò dal carcere di Quatro Álamos, senza destinazione conosciuta.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera ai Romani, cap.6, 12-18; Salmo 124; Vangelo di Luca, cap.12, 39-48.

La preghiera del mercoledì è in comunione con quanti ricercano l’Assoluto della loro vita nella testimonianza per la pace, la fraternità e la giustizia.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura il brano di un intervento di Armido Rizzi al Convegno “Paradosso cristiano nel crepuscolo del XX secolo”, promosso dalle riviste Esodo, Il Foglio, Il Gallo, Pretioperai, a Salsomaggiore 23-25 aprile 1994. Ed è questo, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La testimonianza è la visibilità del momento di gratuità, presente in ogni atto etico ma non sempre visibile. Ogni atto etico è inabitato dalla gratuità, ma c’è un certo tipo di atto etico dove la gratuità si fa visibilità, un fare positivo e percepibile per cui l’atto etico è anche una testimonianza. Non solo fa, ma tradisce – nel senso che lascia trapelare, trasparire – che quel fare viene da altrove. Direi che la testimonianza è la gratuità che si fa volto dispiegato dell’atto etico. Ma dire volto non è ancora dire nome; perciò la testimonianza etica non è confessione o professione di fede. Se volete, c’è un cuore, una dimensione nascosta dell’atto etico, c’è il farsi volto, nel caso nostro la gratuità che diventa testimonianza, e poi c’è un dare il nome e dire magari: questo è Dio, il Dio di Gesù Cristo. Vedrei la testimonianza come quel momento intermedio, quel movimento dell’etica che tende a farsi confessione. Non è detto che arrivi a farsi tale e non c’è nemmeno bisogno che arrivi a farsi tale. Non dico che non sia importante aggiungere un nome; ma direi che è meno importante che dare un volto. Mi chiedo sempre di più se dentro la comune vocazione umana all’eticità, che è sempre obbligazione e gratuità, prima di aver fretta di dare un nome alla presenza che inabita segretamente e che ispira e sollecita l’atto etico, se non dovremmo, proprio come Chiesa, dare un volto alla gratuità che inabita l’atto etico. La testimonianza consiste nel dare questo volto, e il rivolgersi della Chiesa al mondo dovrebbe esser proprio un andare in questa direzione. Ritraduco in questi termini: testimonianza è dare visibilità al segreto divino che abita l’eticità, senza bisogno di dirne il nome. Il nome lo diciamo tra noi come questa mattina nell’Eucarestia. C’è il momento esoterico, per così dire, della comunità ecciesiale ed e lì dove diciamo il nome. E il momento dossologico, liturgico, catechetico, narrativo… E c’è un momento e un tempo rivolti al di fuori, nella testimonianza della gratuità; ed anche questo va fatto con gratuità, non riducendo la testimonianza ad una prima avance per poi dire il nome. Non parlo mai di Dio se non quando faccio le conferenze: non esibisco il nome di Dio a meno che l’altro mi domandi perché faccio questo o quello (“ma chi te lo fa fare?”). Allora rispondo tematizzando, raccontando la storia del Dio di Israele e di Gesù Cristo. (Armido Rizzi, Gratuità della testimonianza e obbligo dell’agire etico).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 25 Ottobre 2017ultima modifica: 2017-10-25T22:21:30+02:00da fraternidade
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