Giorno per giorno – 10 Ottobre 2017

Carissimi,
“Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta” (Lc 10, 42). L’ascolto è alla radice dell’esperienza religiosa di Israele, come proclama del resto la sua professione di fede: “Ascolta, Israele, il Signore è nostro Dio. Il Signore è uno. Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze. Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore; li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai.” (Dt 6, 4-7). Di ascolto in ascolto, la parola di Dio passa attraverso le generazioni, come necessario preliminare e orientamento al fare. E sembra di vedere in questo la figura di Maria che, seduta ai piedi di Gesù, nell’atteggiamento del discepolo, si lascia da lui ammaestrare. Ma c’è anche un altro passo della Bibbia, in cui il popolo d’Israele, a Mosè che ha terminato di leggere a voce alta il libro dell’alleanza, risponde letteralmente: “Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo udiremo” (Es 24, 7). E lo si potrebbe applicare a Marta, in cui il fare precede l’ascoltare, come a dire che aiuta ad una comprensione più profonda della parola. Gesù, comunque, non rimprovera a Marta il suo daffare, quanto piuttosto il suo agitarsi, il richiamare l’attenzione su di sé, il giudicare la sorella. Attitudine tipica di certa figura religiosa, che finisce per prestare più ascolto a se stesso che all’Altro (altro), valorizzando il proprio operato, rivendicando meriti, sollecitando riconoscimenti, avanzando esigenze, svalutando l’agire altrui. Comportamento che svilisce la testimonianza del Regno da servizio reso al fratello nelle sue necessità, radicato nel gioioso annuncio del vangelo, a pratica religiosa solo formale che ha ormai perso le sue radici. Stasera, ci chiedevamo come è il nostro essere in famiglia, in comunità, nella chiesa, e, più in generale, negli ambienti in cui ci muoviamo: siamo centrati su noi stessi o siamo capaci di uscire dal nostro guscio, aprendoci all’accoglienza e all’ascolto degli altri, della parola di Dio che sono anche gli altri?

Tre sono le memorie che il nostro calendario ci propone oggi: Jules Monchanin (Swami Parama Arubi Anandam), precursore del dialogo tra cristianesimo e induismo; Michele Pellegrino, pastore e profeta di una Chiesa rinnovata, Daniele Comboni, missionario del Regno in Africa.

La vita di Jules Monchanin, nato a Fleurie, in Francia, il 10 aprile 1895, fu quella di un pioniere dell’incontro tra le religioni, vissuta fino al limite delle sue possibilità fisiche, psicologiche, intellettuali e culturali. Ordinato presbitero, nel 1938 si trasferì nell’India del Sud, dove si mise a disposizione della Chiesa di Tiruchirapalli. Dopo qualche anno, assieme a Henri Le Saux, fondò l’ashram della Trinità, assumendo il nome di Swami Parama Arubi Anandam (= Felicità dello Spirito Santo). Monchanin credette profondamente che la spiritualità hindu potesse arricchire e vivificare il cristianesimo. Fermamente convinto, fin dall’inizio del suo ministero sacerdotale che la missione del cristiano fosse quella di stabilire una relazione dialettica con il pensiero scientifico moderno e con le altre religioni, dedicò tutto se stesso a questo fine. Alla fine dell’agosto 1957 gli fu diagnosticato un tumore e gli fu suggerito di tornare in Francia per essere operato. Fu ricoverato all’ospedale Saint-Antoine di Parigi, stremato e ridotto a 42 kg di peso. Lo stato di avanzamento della malattia, rese impossibile operarlo, e Monchanin, il 10 ottobre 1957, dopo aver ricevuto il viatico, stese le braccia in forma di croce come estremo gesto di offerta e dopo alcune ore spirò dolcemente.

Michele Pellegrino era nato a Centallo (Cuneo) il 25 aprile 1903. Sacerdote a soli 22 anni nella diocesi di Fossano, fu professore di Letteratura cristiana antica e di Storia del cristianesimo all’Università di Torino, fino a quando, nel 1965, papa Paolo VI lo chiamò alla guida della Chiesa torinese. L’amore per la Parola di Dio e la profonda conoscenza dell’insegnamento dei Padri, ne fecero un pastore sensibilissimo, sollecito e coraggioso di fronte alle necessità e alle sfide inedite che via via si manifestavano nella comunità dei fedeli e nella società civile del tempo. Rassegnate le dimissioni, nel luglio del 1977, continuò negli anni successivi ad impegnarsi in Italia e all’estero sui temi dell’attuazione del Concilio, della povertà, della comunione, del dialogo interreligioso e della libertà nella comunità dei credenti in Cristo. Colpito da ictus cerebrale, l’8 gennaio 1982, paralizzato e reso afono, chiese di passare quanto gli restava da vivere tra gli ultimi degli ultimi, al Cottolengo. Lì si spese leggendo i Padri della Chiesa, sgranando senza sosta il rosario, visitando, sorridendo e benedicendo gli altri malati. Fino a che la morte lo colse la mattina del 10 ottobre del 1986.

Daniele Comboni era nato in una povera famiglia contadina, quarto degli otto figli di Domenica e Luigi Comboni, a Limone sul Garda (Brescia) il 15 marzo 1831. Durante gli studi a Verona aveva maturato la sua vocazione, che lo portò, completati gli studi di filosofia e teologia ad essere ordinato sacerdote nel 1854 e a partire, tre anni dopo, per la sua prima missione in Africa, con destinazione Khartoum, la capitale del Sudan. Da lì scrisse ai genitori: “Dovremo faticare, sudare, morire, ma il pensiero che si suda e si muore per amore di Gesù Cristo e della salute delle anime più abbandonate del mondo è troppo dolce per farci desistere dalla grande impresa”. Tornato in Italia, elaborò nel 1864 un Piano per la rigenerazione dell’Africa, sintetizzabile nello slogan “Salvare l’Africa con l’Africa”, espressione della sua fiducia incrollabile nelle risorse umane e religiose delle popolazioni africane. Sull’onda di questa sfida, fondò, nel 1867 e nel 1872, l’Istituto maschile e l’Istituto femminile dei suoi missionari, che saranno conosciuti in seguito come Missionari Comboniani e Suore Missionarie Comboniane. Nominato Vicario apostolico dell’Africa Centrale e consacrato vescovo nel 1877, dedicò i suoi ultimi anni con instancabile energia a battersi contro la piaga dello schiavismo e a consolidare l’attività missionaria con gli stessi africani. Il 10 ottobre 1881, a soli cinquant’anni, stroncato dalle fatiche e dalla malattia, moriva a Khartoum, tra la sua gente.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Giona, cap.3, 1-10; Salmo 130; Vangelo di Luca, cap.10, 38-42.

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali del Continente africano.

Anche per stasera è tutto. Noi ci si congeda qui, lasciandovi ad una citazione del Card. Michele Pellegrino, tratta dal suo “Il popolo di Dio e i suoi pastori. Cinque conferenze patristiche” (Effatà). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
A Gregorio sta a cuore il ministero della predicazione. La profondità e la ricchezza della parola di Dio sono motivo di gioia per il predicatore il quale, compreso della sua pochezza e guidato dalla grazia, cerca di approfondirle, ritirandosi dalla canicola del mondo in un bosco folto e fresco (Hom. in Ez. I, 5, 1). Gregorio torna spesso spiegando il significato della predicazione e il modo con cui deve applicarsi. La predicazione è uno degli impegni della activa vita. La quale si esplica “spezzando il pane a chi ha fame, insegnando la parola della saggezza a chi non la conosce, richiamando il prossimo orgoglioso sul cammino dell’umiltà, prendendosi cura del malato e provvedendo adeguatamente a tutto ciò che ci è stato affidato”. Segue subito la descrizione della vita contemplativa (Hom. in Ez. II, 2, 8). Il predicatore deve conoscere le due vie, la attiva e quella contemplativa. Cronologicamente la vita attiva viene prima: è con la pratica delle buone opere che si giunge alla contemplazione, la quale è più eccellente dell’azione poiché ci permette di sperimentare nel nostro cuore, anticipatamente, la quiete della vita futura (Hom. in Ez. I, 3, 9). Ma non si pensi, per carità, che il predicatore in quanto pastore (rector) possa dispensarsi dalla contemplazione: egli deve essere “vicino ad ognuno condividendo con lui la sofferenza” e, nello stesso tempo, “attratto in alto dalla contemplazione (conteplatione suspensus)” (Reg. Past. II, 5; II, 7). Il fine della predicazione è essenzialmente la salvezza eterna degli uditori. Non bastano le manifestazioni esteriori della pietà se poi le anime sono schiave delle cose passeggere: “Vediamo, fratelli carissimi, come siete intervenuti numerosi alla festa del martire. Ve ne state lì in ginocchio, vi battete il petto, dite a voce alta parole di preghiera e pentimento, vedo lagrime scorrere sul vostro viso. Esaminate, vi prego, le vostre domande, vedete se chiedete nel nome di Gesù, cioè se domandate i beni dell’eterna salvezza… Ohibò! C’è uno che a Dio chiede di sposarsi, un altro chiede una villa, un altro del cibo… e ce n’è uno che a Dio sta chiedendo che il proprio nemico finisca di vivere” (Hom. in Ev. II, 27, 7). (Michele Pellegrino, Il popolo di Dio e i suoi pastori).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 10 Ottobre 2017ultima modifica: 2017-10-10T22:18:07+02:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo