Giorno per giorno – 24 Settembre 2017

Carissimi,
“Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? ( Mt 20, 13-15). Oggetto della parabola che Gesù stava raccontando era come funziona il regno dei cieli e quindi anche una comunità che si voglia suo sacramento, laboratorio, o anticipazione che dir si voglia. Qual è la logica che lo regge, quindi. E, il regno dei cieli, è bene ripetercelo, non è il paradiso, della cui organizzazione si occupa e occuperà il buon Dio. Ma è la società umana, nella misura in cui permette a Dio di regnare in essa. Non dobbiamo, perciò, fuggire per la tangente di certo facile spiritualismo, per evitare (anche un po’ furbescamente) di fare i conti con l’idolo che regge il sistema del mondo, adeguandoci ad esso, soprattutto se ne risultiamo in qualche modo tutelati. Stamattina, durante l’Eucaristia in monastero, c’è stato chi ha ricordato che la logica del padrone della parabola che finisce col pagare tutti i suoi lavoratori con lo stesso salario, indipendentemente dall’orario lavorato, ricorda piuttosto da vicino un certo filosofo tedesco che (senza per altro riferirsi a Dio e al suo regno) prometteva un sistema in cui tutti potessero lavorare secondo le loro possibilità e ricevere, però, secondo le loro necessità. Ipotesi che si avvicinino anche solo di poco a questa prospettiva, continuano a dare fastidio a chi (ed è un intero sistema) se ne vuole uscire meglio degli altri, in termini di potere, prestigio sociale, godimento di beni. Che altri muoiano, è problema loro. Beh, la buona notizia del regno di Dio, della società nuova e fraterna, ci deve orientare e, quando necessario, inquietare, anche su questo materialissimo piano, rappresentato dallo stomaco altrui, dalle concrete necessità che affliggono gli altri, oltre i limitati orizzonti, entro cui ci insegnano a rinchiuderci. Dio è questo sporgersi sul bisogno degli altri. Non c’è, per noi, alternativa. Salvo rinnegarlo.

I testi che la liturgia di questa xxv Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Isaia, cap.55, 6-9; Salmo 145; Lettera ai Filippesi, cap.1, 20c-24.27; Vangelo di Matteo, cap.20, 1-16a.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità é chiese cristiane.

Il calendario ecumenico ci porta oggi le memorie di Silvano del Monte Athos, monaco e mistico ortodosso, e di irmazinha Veva, piccola sorella di Gesù tra gli indios Tapirapé.

Nato in una famiglia contadina del villaggio di Chovsk (Russia), nel 1866, Simeone Ivanovic Antonov deve molto di quello che sarebbe diventato a suo padre, Ivan, analfabeta, ma non nella fede. Di lui il futuro monaco dirà: Da mio padre ho imparato a non affliggermi per la perdita dei beni materiali e a confidare sempre nel Signore. Quando in casa sopraggiungeva una contrarietà, il suo cuore non si turbava. Dopo un incendio che gli aveva distrutto ogni cosa, non si disperò, ma ripeteva con fiducia: “Il Signore farà in modo che tutto si rimetta a posto”. Una volta passavamo vicino al nostro campo e io gli dissi: “Guarda, ci rubano il raccolto!”. Ma egli mi rispose: “Figlio mio, il Signore non ci ha mai fatto mancare il pane. Se quell’uomo ruba è perché ne ha bisogno”. Un’altra volta gli dissi: “Tu fai sempre elemosine, ma altri, più ricchi di noi, danno molto meno”. Ma egli rispose: “Figlio mio, il Signore ci da il necessario.” E riconoscerà: Non sono arrivato alla statura di mio padre. Era un uomo completamente analfabeta. Anche quando recitava il Padre Nostro – l’aveva imparato a forza di sentirlo in chiesa – ne pronunciava certe parole in modo maldestro. Ma era un uomo pieno di dolcezza e di sapienza”. E ancora: “Ecco uno starec (padre spirituale) come vorrei averlo io. Non andava mai in collera, non aveva mai alti e bassi, era sempre dolce”. Dopo una giovinezza che conobbe le passioni, le intemperanze e le cadute caratteristiche di questa età, Simeone decise di dare una svolta alla sua vita e, nel 1892, si recò al Monte Athos, nel monastero di San Panteleimon, dove divenne monaco, assumendo il nome di Silvano. La vita, anche lì, non fu niente facile: l’aridità spirituale, il desiderio di desistere, di andarsene via, di sposarsi, di avere una vita come tutti, l’angoscia spirituale, la disperazione della salvezza furono prove che l’accompagnarono per anni. Ma tenne duro. Scoprì con entusiasmo la preghiera del Nome (“Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi compassione di me”) e divenne uomo di grande ascesi e di straordinaria umiltà e dolcezza, arricchito di numerosi carismi: profezia, discernimento, chiaroveggenza, cura. Ma fu, soprattutto, apostolo della speranza e dell’amore universale. Soleva dire: “Chi ha in sé lo Spirito Santo, si preoccupa di tutti gli esseri umani, notte e giorno; il suo cuore soffre per ogni creatura di Dio, particolarmente per quelli che non conoscono Dio e che gli si oppongono”. E ancora: “Non conosce Dio nello Spirito Santo chi non ama i suoi nemici”. Morì il 24 settembre 1938 e fu canonizzato nel 1987 dal Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Dimitrios.

Nel primo pomeriggio del 24 settembre 2013, nel municipio di Confresa (Mato Grosso), si spegneva irmazinha Veva (Geneviève Hélène Boyé). Aveva da poco compiuto novantanni, essendo nata il 19 agosto 1923, a Valfraicourt, in Francia. Si era sentita male, poco dopo il pranzo, nel villaggio di Urubu Branco, dove viveva, morendo durante il trasporto all’ospedale. Irmã Veva aveva speso la sua vita come missionaria in mezzo al popolo Tapirapé, in Mato Grosso. Era stata una delle pioniere, nella vita missionaria, della teologia dell’inculturazione del Conselho Indigenista Missionário (Cimi), un organismo legato al Conferenza Nazionale dei Vescovi Brasiliani, votato a preservare la cultura e la religiosità dei popoli indigeni. Entrata nella congregazione delle Piccole sorelle di Gesù, dopo aver trascorso due anni in Algeria, Geneviève aveva lasciato definitivamente la Francia alla volta del Brasile, dov’era giunta il 24 giugno 1952, con altre due consorelle, Clara e Denise, stabilendosi da subito tra gli indios Tapirapé, ridotti allora ad un popolo di cinquanta persone, sopravvissute agli attacchi dei bellicosi vicini Kayapó. Dei Tapirapé, le piccole sorelle di Gesù avrebbero condiviso sempre stile di vita e di abitazione, usi, costumi e alimentazione. Di apparenza fragile, magrissima, capelli bianchi, Irmã Veva aveva continuato fino all’ultimo ad alzarsi prima dell’alba per prendersi cura dell’orto comunitario che sorge dietro le case di terra battuta di Urubu Branco, il più grande dei cinque villaggi, in cui vivono oggi oltre cinquecento tapirapé. Veva, noi la si era conosciuta nella Pasqua del 2012, quando era venuta con le sue sorelle Odila e Elizabette, a celebrare la Settimana santa qui da noi.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano di Silvano del Monte Athos, che, redatto nell’anno della sua morte, si può considerare il suo testamento spirituale. Lo troviamo nel libretto “Non disperare” (Qiqajon), che ne raccoglie alcuni scritti inediti e la biografia. È, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Il Signore ha tanto amato gli uomini, sue creature (cf Gv 3, 16), che li ha santificati nello Spirito santo e li ha resi suoi simili. Misericordioso è il Signore (cf Sal 103,8), e lo Spirito santo infonde in noi la forza di essere misericordiosi. Umiliamoci, fratelli. Con il pentimento riceveremo in dono un cuore compassionevole: allora vedremo la gloria del Signore, conosciuta dall’anima e dalla mente per grazia dello Spirito santo. Chi si pente in verità è pronto a sopportare qualsiasi tribolazione: “fatica e travaglio, fame e sete, freddo e nudità” (2Cor 11, 27), disprezzo ed esilio, ingiustizia e calunnia; la sua anima infatti è tesa verso Dio e non si preoccupa delle cose del mondo (cf 1Cor 7, 32-34), ma si rivolge a Dio con preghiera pura. Chi è attaccato alle ricchezze e al denaro non può mai dimorare in Dio con spirito puro (cf Lc 16,13): la sua anima è costantemente preda della preoccupazione di cosa fare di questi beni terreni. Se non si pente sinceramente e non si rattrista per aver peccato davanti a Dio, morirà prigioniero di quella passione, senza conoscere il Signore. Quando ti prendono ciò che possiedi, tu dallo (cf Mt 5, 40-42): l’amore di Dio non oppone rifiuto. Ma chi non ha conosciuto l’amore di Dio non può essere misericordioso: la gioia dello Spirito santo non dimora nella sua anima. Se il Signore misericordioso ha sofferto per donarci lo Spirito santo che procede dal Padre, se ci ha dato il suo corpo e il suo sangue, allora è evidente che ci darà anche tutto il resto di cui abbiamo bisogno (cf Lc 11, 9-13; Mt 6, 33). Abbandoniamoci alla volontà di Dio: vedremo la sua provvidenza e il Signore ci colmerà al di là di ogni nostra attesa. Il Signore perdona i peccati di chi ha compassione del fratello. L’uomo misericordioso non ricorda il male ricevuto: anche se lo hanno maltrattato e offeso, anche se gli hanno tolto ciò che possedeva, il suo cuore non si turba perché conosce la misericordia di Dio. Nessun uomo può rapire la misericordia del Signore: è inviolabile perché abita nell’alto dei cieli, presso Dio (cf Mt 6, 20). (Silvano dell’Athos, Non disperare).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 24 Settembre 2017ultima modifica: 2017-09-24T22:56:09+02:00da fraternidade
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