Giorno per giorno – 22 Ottobre 2016

Carissimi,
“Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?” (Lc 13, 6-7). Stasera, a casa di dona Teresa, ci dicevamo che c’è gente che pensa Dio così. Come si è e si tende a fare noi. Se qualcosa o qualcuno non funziona come vogliamo noi, lo si taglia via, lo si esclude, lo si lascia da parte. Gesù contrappone all’impaziente proprietario della vigna (l’immagine di dio che abbiamo noi), quella del vignaiolo (l’immagine di Dio che ha lui), che si convince ogni volta ad avere pazienza: forse quest’altr’anno andrà meglio. E l’anno successivo dirà lo stesso. Sino alla fine. Sino a salvarlo comunque in corner: beh non ha fatto frutti, ma ha fatto ombra, prodotto ossigeno, ospitato nidi. Noi dovremmo imparare da Gesù a non proiettare in Dio la nostra maniera d’essere, ma a proiettare in noi la sua. Ci riuscirà più facile evitare di uscircene con giudizi sbrigativi sul ruolo che Dio giocherebbe nel male presente nella nostra storia, messo a tema dalla prima parte del vangelo di oggi (cf Lc 13, 1-5). Che è ciò che ci porta a chiederci, per esempio: perché i morti di Aleppo, del Mediterraneo, di Haiti, o, più vicino a noi, la morte di Kaiwan, di qualche giorno fa, portato via da una leucemia fulminante? Dio che c’è a fare? Perché non impedisce il male? Noi non abbiamo risposte. Ci sono religioni che le azzardano. Anche gli amici del biblico Giobbe ci avevano provato. Ma sono stati smentiti da Dio. Gesù, in cui, per noi cristiani, si rende manifesto l’agire di Dio, cerca, quando può, di contrastarlo, il male, senza usarne, tuttavia, gli strumenti, per non smentirsi. Poi, l’assume su di sé, pur di sollevarne gli altri. È a questa conversione che egli ci chiama: lottare, ciascuno come può, contro il male, in tutte le sue forme, che si tratti del prodotto della malvagità umana, o delle forze incontrollate della natura. In questa azione solidale noi diamo corpo all’azione salvifica di Dio nella storia. L’alternativa comporterebbe il soccombere a esso, come complici o come vittime. Ed è ciò a cui per lo più ci è dato, purtroppo, di assistere.

Oggi il calendario ci porta la memoria di Hadewijch di Anversa, mistica del Tredicesimo secolo; e quella di Nervardo Fernández, Luz Stella Vargas, Carlos Páez e Salvador Ninco, martiri della lotta in appoggio alle rivendicazioni indigene in Colombia.

Il poco che si sa di Hadewijch, lo si deduce dai suoi scritti. Originaria della regione di Anversa, nelle Fiandre, visse nel Tredicesimo secolo e prese parte al movimento delle beghine, sorto in quegli anni e formato da donne che, rifiutando il matrimonio, vivevano lo spirito e la parola dell’Evangelo in libere comunità femminili, caratterizzate dalla semplicità di vita, la condivisione dei beni, il lavoro, la preghiera e la pratica delle opere di misericordia, senza tuttavia che ciò comportasse l’assunzione dei voti religiosi. Nella comunità di cui faceva parte, Hadewijch ricoprì probabilmente per un certo tempo funzioni di direzione spirituale, fino a quando, non ne sappiamo il motivo, se ne dovette allontanare. Questo non le impedì di mantenere i contatti con le antiche figlie spirituali, secondo quanto ci è testimoniato dalle numerose lettere a loro indirizzate. Di lei ci restano anche numerose poesie e descrizioni di visioni. In ogni suo testo risalta e si evidenzia la centralità dell’amore di Dio.

Nervardo e Luz Stella erano giovani militanti cristiani, artisti di teatro e della canzone popolare. Vivevano a Neiva, nel dipartimento di Huila (Colombia). Carlos e Salvador erano leader della Comunità indigena Caguán Dujos. La vita di Nervardo fu segnata dalla ricerca appassionata di Dio e del servizio disinteressato e generoso ai fratelli più poveri. Avrebbe voluto essere frate francescano, ma le condizioni di salute glielo avevano impedito. Fu ugualmente francescano tra la gente, vivendo in semplicità, dispensando allegria, offrendo le sue canzoni e il suo repertorio teatrale. Luz Stella aveva due passioni: il teatro e l’organizzazione popolare. Carlos e Salvador erano invece impegnati, assieme alle venticinque famiglie della loro Comunità, nella difesa della loro terra, su cui avevano messo gli occhi i Lara Perdomo, una famiglia di latifondisti della regione. Che aveva addirittura già imposto una data per lo sgombero: il 15 gennaio successivo. Per evitare di arrivarci impreparati, la comunità aveva delegato i quattro a prendere contatto con altre comunità della regione che affrontavano conflitti analoghi. La mattina del 22 ottobre 1988 si erano incontrati a Campoalegre, da cui avrebbero dovuto proseguire in autobus fino a Rosales. La fermata dell’autobus si trovava a mezzo isolato dal posto di polizia. I quattro non presero mai l’autobus, né arrivarono a Rosales. Quando gli indigeni si recarono al posto di polizia a chiedere notizie degli scomparsi, si sentirono rispondere che c’era nessuna segnalazione al riguardo. Solo la domenica 26, un contadino ne scoprì i corpi in un fossato. Tutti presentavano ustioni da acido e fori di proiettili. A Luz Stella erano stati tagliati i piedi.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera agli Efesini, cap.4, 7-16; Salmo 121; Vangelo di Luca, cap.13, 1-9.

La preghiera del sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

Bene, si é fatto tardi e noi, perciò, ci congediamo, non senza offrirvi come ultima lettura un brano di Hadewijch. La troviamo nel bel libro “Poesie Visioni Lettere” (Marietti), che raccoglie alcuni dei suoi scritti. Ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La requie che dagli uomini io ritraevo stava in questo, che io ciascuno amavo in ciò che egli era e aveva, che a ciascuno lasciavo compiere quel tanto che a lui pareva caro, quel tanto che a lui pareva bene: accadesse questo in ciascuno o accadesse in Dio, io non curavo. Ma quanto essi possedevano nell’amore, io lo amavo per Iddio, a che egli verso di sé lo confortasse e crescere lo facesse a perfezione: questo io desideravo. Dall’amore che io portavo alla Sua fortuna presso tutti, non altro diletto volevo fuor che questo. Ma che vivessero uomini a Lui scarsi e stranieri, ciò mi era gravoso. Perché tanto dall’amore per Lui ero gravata e occupata, che mi pesava il dover sopportare che altri meno Lo amasse di me. E la carità feriva me, amara e forte, [quando vedevo] che Lui lasciava così stranieri, così stravolti da tutto il loro bene, che è Lui stesso nell’amore. Ciò mi riusciva grave per ore e ore, tanto che a me accadeva come a Mosè per amor di sua sorella, di volere che Egli a loro donasse amore, oppure a me lo togliesse: volentieri io avrei comperato a loro di essere amati, al prezzo di essere odiata io. Non solo, ma vedendo qualche volta che Lui non lo faceva, di cuore mi sarei distolta dall’amore di Lui per amare loro, a dispetto dell’ira Sua. Sì, poiché a essi, derelitti, non era dato conoscere l’amore, soave al cuore, che dimora nella santa Sua natura, li avrei volentieri amati io, fosse stato in mio potere. Ahi, che la carità m’ha ferita più d’ogni altra cosa, tranne Amore in persona. E che è mai Amore in persona? È potenza divina, che deve tutto precedere: in me qui, così fa. Perché la Potenza che è Amore in persona non ha riguardo a nessuno, non nell’odio e non nell’amore; né presso di lei si trovò mai grazia. Tale Potenza a sua volta impediva a me di liberare in un batter d’occhio gli uomini tutti, per trarli in altro stato da quello a cui Egli li aveva eletti. Quando mi accadeva di comportarmi in quel modo con Lui, io vivevo ottimamente nella mia libera umanità: potevo allora esigere ciò che volevo. Ma quando ero nell’altro stato d’animo, io ero migliore e più da presso elevata nella Natura divina. Tanto pienamanete io son vissuta come creatura umana, che in santi né in uomini requie io presi. E tanto desolata io vissi, fuori d’Amore, nell’amore di Dio e dei suoi; di fatto, io non ho, da Lui, ciò che è mio: che è ciò che Dio mi sottrae e che tuttavia io posseggo e rimarrà mio. Cosicché non sperimentai mai l’Amore, se non in una morte ognor nuova; finché non fu il mio tempo, il tempo della mia ricreazione, e Dio mi diede a conoscere la compita fierezza dell’amore: cioè, doversi amare l’Umanità di Cristo, per giungere alla sua Divinità, e rettamente confessare Lei in un solo Essere. Tale la vita più degna che mai, nel Regno di Dio, si sia vissuta. Sì ricca quiete mi donò Iddio, a suo tempo, gradatamente. (Hadewijch, Poesie Visioni Lettere).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 22 Ottobre 2016ultima modifica: 2016-10-22T22:11:16+02:00da fraternidade
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