Carissimi,
“Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera” (Lc 12, 51-53). “Altra ‘pagina difficile’, quella del Vangelo di oggi, almeno così sembrerebbe ad una prima lettura. La pace che Gesù viene a turbare è quella della nostra vita accomodata, della cecità verso i bisogni altrui, della rassegnazione che ci porta a dire: non posso farci niente. La divisione recata da Gesù è quella che si determina automaticamente quando prendiamo la sua Parola sul serio, quando ci impegniamo a denunciare situazioni concrete d’ingiustizia, nei luoghi di lavoro, nella nostre città, nelle pubbliche amministrazioni, e naturalmente nelle nostre comunità e nella chiesa, impegnandoci a lottare per superarle. La Parola ci chiede di essere vissuta con coerenza, senza paure, con la forza e la luce che Dio ci dà sempre anche quando ci sembra di sentirci ‘persi’ nel buio del non senso”. Ce lo scriveva poche ore fa la nostra amica Nadia, che è del gruppo di quanti, da lì, si fanno sentire, con maggiore o minore regolarità, per dire la loro, offrirci spunti di riflessione, segnalarci casi, criticarci, o anche solo per salutarci e dirci la loro comunione. Sono il nostro zoccolo duro. O i ‘fedelissimi’ (che ce lo fanno sapere). O, anche, qualche volta, il nostro Pronto Soccorso. Solo poche ore prima ci aveva scritto don Aldo Antonelli: “È da un paio di settimane che mi porto dentro, muginando e rimuginando, quella che non so dire se debba essere una legge dell’inclusione (e-e) o quella ferrea ed esigente dell’esclusione (o-o; aut aut)! Il problema mi si pone perché mi rendo conto che noi, figli del Dio della Comunione e della Convivialità, dovremmo esser capaci di saper coniugare anche gli impossibili, saper far convivere in noi ciò che normalmente altri non riescono a tenere insieme. E tuttavia avverto che spesso, in questo progetto di coabitazione, si infiltra, subdola e venefica, quell’ipocrisia che trasforma le “convivenze impissibili” in minestroni tossici. Cosicché noi, da testimoni di inedite alleanze cui la storia e la fede per vie diverse ci spingono, ci degradiamo a volgari menestrelli di opportunismi che non ci fanno onore. […] Insomma, come cristiani e come chiesa, abbiamo smesso di coniugare gli impossibili (morte e vita, peccato e grazia, smarrimento e speranza, dolore e gioia, lotta e amore) ed abbiamo allegramente messo in atto la pratica della congiunzione là dove era d’obbligo l’esclusione (povertà o ricchezza, servizio o potere, sì o no, sorriso o inganno). Abbiamo tolto le congiunzioni là dove era necessario che stessero e le abbiamo poste là dove non andavano poste!”[1].
“Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione!”. Già.
Oggi il calendario ci porta la memoria di Hadewijch di Anversa, mistica del Tredicesimo secolo; e quella di Nervardo Fernández, Luz Stella Vargas, Carlos Páez e Salvador Ninco, martiri della lotta in appoggio alle rivendicazioni indigene in Colombia.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera ai Romani, cap.6, 19-23; Salmo 1; Vangelo di Luca, cap.12, 49-53.
La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.
Bene, si é fatto tardi e noi, perciò, ci congediamo. Vi lasciamo alla lettura del brano di una lettera di Hadewijch, che troviamo nel bel libro “Poesie Visioni Lettere” (Marietti), che raccoglie alcuni dei suoi scritti. È, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Non ti attaccare a nessuna cosa con una veemenza tale che per essa Iddio abbia a negarti la sua grazia. Non ti sottrarre per orgoglio a nessun servizio. Non aver ritegno per orgoglio a far doni, ancorché minuti e poveri. Non esimerti per orgoglio dal chiedere ciò di cui abbisogni, né potresti farne a meno senza danno. Non arrossire, per orgoglio, di patir fame o sete o sonno o freddo, o un male antipatico, o di aver detto una sciocchezza o compiuto atti stravaganti: perché proprio il maggior onore e la più bella cortesia dei modi sta nel confessare la propria confusione, mentre è superbia grande tacerne e d’altronde è uno sconcio e una vergogna starla a fare più grave di quanto in se stessa non sia. E per giunta è una falsità e finzione con Dio, amor nostro, ed è una disdicevole infedeltà. È debito, infatti, di alta fedeltà e di amore, che l’amante si scopra e dia all’amato in tutto e per tutto in quello che è, alto o basso che sia. Io ti dico pertanto: dovunque tu manchi innanzi a Dio solo, innanzi a lui ti devi confondere, e con tale amorevolezza davanti a lui ne converrai e con tale consapevolezza davanti a lui te ne dorrai, che egli ascolti il lamento e perdoni il misfatto ancor prima che tu possa arrivare a confessartene dinnanzi al sacerdote. Dove tu pecchi innanzi agli uomini, confessatene e umiliatene in pubblico; dove peccasti invece soltanto nel tuo cuore, confessalo, come dianzi ti dicevo, tra te e Dio, nella confessione. (Hadewijch, Poesie Visioni Lettere, Lettera V).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.
[1] La lettera, la trovate per esteso nel nostro blog: http://giornoxgiorno.myblog.it/archive/2009/10/22/giorno-per-giorno-20-ottobre-2009.html#comments)