Giorno per giorno

Giorno per giorno – 11 Giugno 2017

Carissimi,
“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3, 16-17). Giovedì sera, quando ci si è ritrovati con la comunità, a casa di Alexandro – e c’era anche, dopo tanto tempo, Rafael, “grazie” ad un malanno che l’aveva portato fino in ospedale, nella sua città, e poi, per qualche giorno, qui da noi –, Arcelina si chiedeva cosa avesse a che fare questo brano evangelico con la festività odierna, della Trinità, dato che vi era menzionato solo il Padre e il Figlio. Ed è stato Rafael che prontamente ha ribattuto: No, no, c’è anche lo Spirito, che è l’amore che il Padre nutre per il Figlio e, in lui, per ogni altro figlio e figlia. Ed è proprio questo legame che fa sì che la Trinità non sia semplicmente una formula, ma diventi storia nella storia di Gesù, che dà corpo al desiderio di salvezza di Dio per i suoi figli, tutti, in cui ha soffiato il suo alito di vita (Gen 2, 7). Salvezza che ha la forma del dono e del perdono. Che sono le due più vere espressioni dell’amore. Ad evitare che si tratti solo di un egoismo mascherato. Dunque, contrariamente a ció che spesso si vorrebbe, il Padre non giudica né tanto meno condanna (come siamo invece abituati noi), ma dà se stesso in dono nel Figlio, che ne è l’immagine visibile. Attraverso il suo Spirito, diventa solidale con le vittime e gli oppressi di tutti i tempi e luoghi, per guidarli in quell’esodo che sfocerà, presto o tardi, attraverso tappe successive, in quella terra senza mali, che ha le sue anticipazioni nella coscienza dell’uomo, nelle comunità dei suoi seguaci (se sono suoi seguaci), e poi via via in porzioni crescenti e sempre più vaste delle diverse società, man mano che si afferma lo spirito di uguaglianza, di fraternità, di perdono e di riconciliazione, che pone fine al circolo vizioso, retto dalla perversa ricerca del potere e dalla logica della competizione, del risentimento, dell’odio, della vendetta. Alla fine non resta che chiederci: ma noi, alla Trinità, ci crediamo davvero? Le nostre famiglie e comunità ne sono davvero immagine?

Oggi, prima domenica dopo Pentecoste, si celebra dunque la Solennità della Santissima Trinità, che per noi è la prima e la migliore comunità. Benché ad essa sia rivolto ogni culto e diretta ogni preghiera nella Chiesa, a partire dal 1334 fu deciso di istituire una festa specifica, dedicata alla contemplazione e all’esaltazione del mistero divino così come trova espressione nella fede cristiana.

I testi che la liturgia di questa Solennità propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro dell’Esodo, cap.34, 4b-6. 8-9; 2ª Lettera ai Corinzi, cap.13, 11-13; Vangelo di Giovanni, cap.3, 16-18.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e Chiese cristiane.

Il calendario ci porta oggi le memorie di Barnaba, apostolo, e di Luca di Simferopol, pastore al servizio dei poveri.

In realtà si chiamava Giuseppe ed era un levita, nativo di Cipro. Quando si era fatto cristiano, aveva venduto il suo campo e, il ricavato, l’aveva depositato ai piedi degli apostoli ed era stato grazie a lui, presto soprannominato Barnaba (“figlio della consolazione” o, forse, più probabilmente, “figlio della profezia”), che l’appena convertito persecutore dei cristiani Saulo-Paolo era stato ammesso nella cerchia dei discepoli, piuttosto diffidenti nei suoi confronti. Fu ancora lui ad essere inviato a prendere contatti con la neonata comunità di Antiochia di Siria, presso la quale poi portò Paolo. Insieme con questi organizzò la raccolta di aiuti per la chiesa madre di Gerusalemme, dove la popolazione soffriva la fame per una carestia. Tornati a Gerusalemme progettarono il primo viaggio missionario, quello in cui Marco darà forfait e che li porterà a Cipro e in una parte dell’Asia Minore. Di nuovo a Gerusalemme, parteciparono alla discussione sugli obblighi che i cristiani provenienti dal paganesimo dovevano assumere. Il mancato accordo con Paolo sul secondo viaggio missionario, porterà alla separazione definitiva dall’antico compagno. Ritenendo che Marco avesse più bisogno di lui che non l’altro, Barnaba se ne andò con lui a Cipro. Qualche anno dopo, le carte si rimescolarono. Sappiamo dalle lettere di Paolo che Marco stava con lui e, sempre Paolo, spenderà, nella lettera ai Corinzi, sette-otto anni dopo la separazione, una parola di elogio per Barnaba, perché anch’egli si manteneva con il suo lavoro. Ma non sappiamo dove, né come. Forse, azzardiamo, nella nativa Cipro. Luca, l’autore degli Atti degli apostoli, avendo preso partito per Paolo, non ce ne dice nulla. Una tradizione vuole che si sia recato a Roma e a Milano, per predicarvi l’evangelo, e che sia più tardi morto martire a Salamina verso l’anno 63.

Valentin Feliksovic Wojna-Jasieniecki era nato il 14 aprile 1877 a Ker, in Ucraina, da una nobile famiglia polacca. Nel 1917, dopo gli studi in medicina, si era trasferito, con la famiglia che aveva nel frattempo costituito, a Taskent, dove aveva ottenuto il posto di chirurgo primario nel locale ospedale. Nello stesso periodo, la moglie si era ammalata di tubercolosi e, nel 1919, era morta, lasciandolo vedovo con quattro figli a carico. Nel 1921, accettata la proposta di abbracciare lo stato ecclesiastico avanzatagli dal vescovo della città, fu ordinato presbitero, pur continuando ad esercitare la professione, con un’attenzione particolare per i più poveri, e ad insegnare all’università. Prima di ogni operazione, padre Valentin soleva raccogliersi in preghiera e volle sempre tenere le sue lezioni, indossando l’abito sacerdotale. Nel 1923, dopo aver preso i voti monastici e assunto il nome di Luca, fu eletto vescovo di Taskent. Il suo ministero pastorale fu contrassegnato da persecuzioni, arresti, prigionie, condanne al confino. Nel 1942, alla fine della sua ultima prigionia, il metropolita Sergio Stratogorskij lo nominò arcivescovo di Krasnojarsk, in Siberia. Nel 1946, su richiesta delle autorità che mal tolleravano la sua attività, fu trasferito alla chiesa di Simferopol, in Crimea, dove rimase fino alla morte, che lo raggiunse più che ottuagenario e ormai quasi cieco, l’11 giugno 1961. Per quanto lui stesso poverissimo, e forse proprio per questo, era sempre stato fedele nell’aprire le porte della sua casa agli ultimi e più poveri, in totale umiltà e mansuetudine.

È tutto, per stasera. Prendendo spunto dlla solennità odierna, vi proponiamo, nel congedarci, un brano del Card. Carlo Maria Martini, tratto dal suo libro “Esercizi spirituali” (EDB). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Perché Gesù si presenta così umile, indifeso e quindi perdente in questo mondo? Certamente, per un motivo ascetico: Gesù sa che l’orgoglio ha rovinato l’uomo e quindi l’uomo va rifatto passando per la via dell’umiltà. C’è un motivo anche salvifico: Gesù offre se stesso con amore per la salvezza dell’uomo caduto a causa della superbia. Ma c’è pure un motivo teologico: in questo modo Gesù ci fa capire qualcosa della Trinità. Per questo le religioni che alla fine esaltano il successo mondano non riescono ad ammettere l’idea del Dio trinitario. Mentre invece l’umiltà di Gesù ci apre qualche spiraglio per intuire qualcosa della Trinità, dove, come sappiamo, per quanto lo si possa esprimere con parole umane, ogni persona divina è tutta in relazione all’altra. Nessuno si chiude in sé, ma tutto si dona all’altro. È quell’atteggiamento che noi umanamente chiamiamo amore: uscire da se stessi per donarsi tutto all’altro. È umiltà, svuotamento di se stessi, perché l’altro sia. Per questo, Dio-Amore è rappresentato al meglio dal Gesù umiliato, povero, sofferente, crocifisso. Il crocifisso è perfetta rivelazione del Padre e della Trinità. Ecco, questo certamente noi lo diciamo un po’ con parole retoriche. Ma la via cristiana è il penetrare nella preghiera e nell’esperienza concreta questa verità. Se questo è vero, l’umiltà di Gesù è dunque porta della Trinità. Ne deriva allora anche un nuovo motivo antropologico dell’agire di Gesù, quello che il Vaticano II esprime con quelle parole che poi riprende Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor hominis: l’uomo si realizza nel dono di sé. E quindi umiltà e sacrificio sono la via alla vera umanità e alla vera pace. Ne consegue anche quella verità politica espressa così incisivamente da Giovanni Paolo II con le parole: “Non c’è pace senza giustizia” e “Non c’è giustizia senza perdono”. Siamo rispettivamente nell’ambito della giustizia della creazione e nell’ambito della giustizia evangelica. […] La difficoltà continua dell’agire cristiano è proprio quella di tenere sempre insieme giustizia della creazione e giustizia del Regno. Giustizia della creazione, perché a ognuno va dato il suo e non è accettabile né sfruttamento, né oppressione, nessuna di queste realtà che umiliano la dignità umana. Ma d’altra parte non è con i mezzi della violenza, della forza, della distruzione del nemico che viene superata questa situazione, ma attraverso il dono di sé, secondo lo spirito evangelico. (Carlo Maria Martini: L’umiltà di Gesù, chiave e segreto della Trinità).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 11 Giugno 2017ultima modifica: 2017-06-11T23:07:31+02:00da
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