Carissimi,
“Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?” (Lc 17, 15-18). Giovedì sera, la comunità si è riunita a casa di Rafael e Laura, anzi davanti a casa, per strada, visto che l’assenza di traffico ce lo consente ancora. Chi non ha trovato posto sulle sedie, disposte a semicerchio intorno al tavolinetto con la Bibbia e l’icona che ci portiamo dietro da dieci anni, si è messo seduto sul marciapiedi. Dopo la lettura del vangelo, come succede ogni volta, ce lo raccontiamo di nuovo, ciascuno un pezzo, con le nostre parole. Poi, uno o l’altro, quando ne è in grado, aggiunge le informazioni di cui dispone per chiarirne i contenuti e il contesto. Sulla lebbra, qui se ne sa abbastanza, perché la nostra è una regione ad alta diffusione della malattia. La lebbra di cui si parla nella Bibbia (in ebraico tsara’at), tuttavia, non è, o non è soltanto, quella che conosciamo oggi, dato che essa colpiva le persone, ma anche le abitazioni o i vestiti, e comprendeva una vasta gamma di infezioni, funghi o eruzioni della pelle, o anche di muffe o carie secche. La malattia, sulla scorta della punizione che, ai tempi dell’esodo, aveva colpito Maria, la sorella di Mosè (Nm 12, 9-10), era considerata dai rabbini il castigo di quanti proferivano giudizi malevoli sugli altri. Anche l’isolamento in cui i variamente malati erano relegati, più che una misura per evitare un possibile contagio, era una sorta di pena del contrappasso del loro peccato: soffrivano quell’esclusione che essi avevano causato o cercato di causare ad altri con le loro maldicenze. Dunque, dei dieci malati, che si erano fatti incontro a Gesù quel giorno, e che lui avevano mandato a mostrarsi ai sacerdoti – di Gerusalemme per gli ebrei, del monte Garizim, per il samaritano -, al fine di ottenerne l’attestato di guarigione, solo quest’ultimo, scopertosi guarito, “disobbedisce” all’ordine di Gesù, e torna da lui, per lodare e ringraziare Dio. Come dire: per il certificato di guarigione c’è sempre tempo, e anche per il mio ritorno a casa e in società, prima voglio dire grazie a quell’uomo che mi ha guarito. Si trattava di un eretico, appartenente a un popolo che da secoli odiava ed era odiato dagli ebrei. Ma fu l’unico che tornò sui suoi passi per prostrarsi ai piedi dell’ebreo Gesù. Noi ci siamo chiesti allora se la nostra fede è capace di viversi nella forma del gioioso ringraziamento (di cui l’Eucaristia dovrebbe essere la massima espressione), o si riduce, invece, a quella dell’obbedienza, più o meno obbligata e un po’ triste, alla norma religiosa. Che manca l’incontro con Gesù.
I testi che la liturgia di questa XXVIII Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
2° Libro dei Re, cap.5, 14-17; 2ª Lettera a Timoteo, cap.2, 8-13; Vangelo di Luca, cap.17, 11-19.
La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e Chiese cristiane.
Oggi è memoria di Madeleine Delbrêl, appassionata di Dio e della gente ordinaria.
Bene. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura due citazioni di Madeleine Delbrêl, tratte, la prima, da una lettera al suo parroco nel 1949; la seconda dal suo scritto del 1948 “Celui qui me suit ne marche pas dans le ténèbres”. Sono, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Il nostro cammino a Ivry ci ha condotte verso i “senza Dio” ed essi sono troppo soli perché noi vogliamo abbandonarli. È a nome loro oltre che a nome nostro che andiamo alla nostra Parrocchia che dovrebbe essere la loro. Ma la loro solitudine è così grande che noi aspiriamo con tutta l’anima che altri cristiani cessino di vivere fra cristiani come se essi non esistessero, o di vivere in mezzo a loro senza donare ad essi il loro cuore e la loro carità. // Bisogna aver preso coscienza di queste due masse di tenebre fra le quali si inserisce la nostra vita: tenebra insondabile di Dio e tenebra dell’uomo, per consegnarsi perdutamente al Vangelo, per scoprirlo attraverso il doppio nulla del nostro stato di creatura e del nostro stato di peccatore. Bisogna aver toccato il fondo della morte che ci sta intorno in tutto quello che fa il nostro amore umano: devastazioni del tempo, della fragilità universale, dei lutti, decomposizione del tempo, di tutti i valori, dei gruppi umani, di noi stessi. Bisogna aver tastato, all’altro polo, l’universo impenetrabile della sicurezza di Dio per percepire in sé un tale orrore del buio che la luce evangelica ci diventa più necessaria del pane. Solo allora ci aggrapperemo ad essa come a una corda tesa al di sopra di un duplice abisso. Bisogna sapersi perduti per voler essere salvati. (Madeleine Delbrêl, Celui qui me suit ne marche pas dans le ténèbres).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.