Carissimi,
“Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui” (Lc 10, 33-34). Tutti ricordiamo bene la parabola del buon Samaritano. E di come con essa Gesù rispondesse alla domanda del dottore della legge che gli aveva chiesto chi fosse il suo prossimo. Quel prossimo che la legge imponeva di amare come se stessi. Gesù sapeva che noi si è propensi a delimitare il campo, se no, rischiamo, come Lui a dire il vero vorrebbe, di perderci. Così “prossimo” sono per noi, tendenzialmente, quelli del nostro sangue, della nostra famiglia, patria, cultura, religione. Tracciando comunque delle differenze, privilegiando alcuni rispetto ad altri, quelli con cui ci sentiamo più in sintonia, o che ci sono più simpatici, o che sono in grado di apprezzare, ed eventualmente un giorno retribuire, ciò che facciamo per loro. Che è l’esatto contrario di ciò che ci chiede (e di come agisce Lui per primo) Dio. Prossimo, dice Gesù, non è chi mi è vicino; è colui a cui mi faccio vicino, mosso non dai miei sentimenti nei suoi confronti, ma dal suo bisogno, dalle sue ferite. Manifeste o nascoste. Certo, il primo Samaritano a piegarsi sull’uomo lasciato mezzo morto ai margini della strada è Lui. Di cui, non a caso, i farisei affermavano: “Non diciamo noi con ragione che sei un Samaritano e hai un demonio?” (Gv 8, 48). Ma, allora, questo è vero anche per Dio. Sì, stasera, ci dicevamo che il nostro è un Dio Samaritano, eretico, che ribalta le immagine prodotte così spesso dal pensiero religioso e, ancor più, testimoniate dal vissuto religioso, attente a disegnare confini, marcare distanze, ratificare lealtà e sancire, perciò, inimicizie. Lui, invece, si piega sul ferito, semplicemente perché ferito: ebreo o samaritano, santo o peccatore, amico o nemico, non gliene può importare di meno. E curvandosi sulle ferite del corpo dell’uno, addita le ferite dell’anima degli altri, i briganti, il levita, il sacerdote. Che non sono meno meritevoli di compassione. Così, Egli ci raggiunge tutti là, dove e nei ruoli in cui, di volta in volta, ci si venga a trovare: aggrediti, aggressori, complici, spettatori indifferenti dell’ingiustizia che si consuma nel mondo. Per convertire i nostri volti al Suo, i nostri occhi al Suo sguardo. Farci Samaritani.
Il nostro calendario ci porta la memoria di Sergio di Radonež, patriarca dei monaci della Russia ortodossa, e di Penny Lernoux, giornalista in difesa dei poveri in America Latina.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera ai Galati, cap.1, 6-12; Salmo 111; Vangelo di Luca, cap.10, 25-37.
La preghiera di questo lunedì è in comunione con le grandi religioni dell’India: Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.
Bene, anche per stasera è tutto. Non avendo disponibili testi relativi alle nostre memorie odierne, abbiamo pensato, in omaggio a quella di Sergio di Radonež, di proporvi un brano di omelia del Metropolita Anthony Bloom of Sourozh, che appartiene alla stessa tradizione spirituale ortodossa. Lo troviamo nel sito di “Nati dallo Spirito” ed è, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Perdonare non significa dimenticare ciò che è successo, ma caricarsi del peso della fragilità, persino del male, di un’altra persona. San Paolo dice: “Imparate a portare i pesi gli uni degli altri”. Questi pesi sono spesso il fallimento di ognuno di noi di essere degni della nostra chiamata – la nostra incapacità di amarci gli uni gli altri, accettarci reciprocamente, servici reciprocamente, aiutarci gli uni gli altri sulla via che porta a Dio. Che ognuno di noi giudichi tutta la sua anima, tutta la sua vita; giudichiamo noi stessi con onestà, e chiediamo perdono non solo a Dio ma anche al nostro vicino, che è talvolta più difficile di chiedere perdono a Dio. Tutti noi siamo fragili. Abbiamo tutti bisogno di sostegno. Forse che ci diamo questo sostegno gli uni con gli altri? O scegliamo coloro che vogliamo sostenere perché ci piacciono, perché sostenerli ci dà gioia, perché aiutarli significa che anch’essi ci risponderanno con gratitudine, con amicizia? Evitiamo di trovar ragioni per non perdonare. Ricordo un uomo che mi disse: “Riesco a perdonare ogni persona che ha peccato contro di me, possono persino amarli; ma devo odiare i nemici di Dio”. Allora pensai a qualcosa che ci viene detto nella vita di un santo, nella quale un prete pregava Dio di punire coloro che l’avevano tradito con le loro vite se non con le loro parole. Cristo gli apparve e gli disse: “Non pregare mai più per la punizione o il rifiuto di alcuno. Se ci fosse anche un solo peccatore in questo mondo, sceglierei di incarnarmi ancora per morire sulla croce per quell’unico peccatore”. Ricordate: se non perdoniamo nostro fratello, non è solo lui ad andarsene addolorato e in lacrime. Noi stessi saremo feriti. Se non perdoniamo, noi stessi non saremo guariti. Il male che ci è capitato per mano di un’altra persona rimarrà con noi, danneggiando la nostra anima, distruggendoci. Impariamo a perdonare, così che altri possano essere guariti, ma anche perché noi stessi possiamo essere guariti. Venite e prostratevi davanti all’icona del Cristo e della Madre di Dio, e poi dirigetevi l’uno verso l’altro con la disponibilità a essere perdonati e a perdonare, costi quel che costi (Metropolita Anthony Bloom of Sourozh, da un sermone del 1999).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.