Giorno per giorno

Giorno per giorno – 28 Settembre 2012

Carissimi,

“Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8, 21). Ovvero: istruzioni per divenire anche noi madri, fratelli e, ovviamente, sorelle di Gesù. Dunque, i famigliari di Gesù, assieme a sua madre, erano giunti là, nella casa in cui abitava, presumibilmente a Cafarnao, anche se il vangelo non lo specifica. Marco, nel racconto parallelo, sostiene che ci fossero andati perché pensavano che fosse partito di testa (cf Mc 3, 21). Un modo di dire che doveva esprimere forse solo la grande preoccupazione che avevano per lui. Luca, comunque, tace questo particolare; dice solo che volevano vederlo (cf Lc 8, 20). Probabilmente, per rendersi conto che stesse bene per davvero, in questa nuova strada che aveva da poco imboccato. Stasera, a casa di Sônia, ci dicevamo che difficilmente la risposta di Gesù intende essere polemica nei confronti della madre (un po’ meno sicuri lo siamo nei confronti dei fratelli – o cugini, se si preferisce – di cui Giovanni dice che “non credevano in lui” (Gv 7, 5). Azzardiamo, anzi, che lui l’avesse adocchiata là fuori, in mezzo alla folla, ed avesse pensato per un momento a ciò che lui era e a quanto le doveva per questo, ed avesse voluto in qualche modo proporla a modello. Perché lei, la parola di Dio, l’aveva davvero ascoltata e l’aveva concretamente “fatta”, tessendola nel suo seno prima e poi aiutandola a crescere come persona, a renderla autonoma, e, accettandone la separazione e il distacco (fino a quello, che si poteva mettere in conto, definitivo),  consegnarla alla vita. Sapendo che era affidarla comunque alle mani del Padre. Questo era stata Maria. Questo è ciò che significa essere madre di Gesù. Ma anche madre di ogni cucciolo di uomo. E così chi genera un(a) figlio(a) – anche solo spiritualmente -, o genera se stesso(a) ad una vita di autonomia, libertà, responsabilità, solidarietà nei confronti di tutti, l’avrà generato(a) come Gesù, figlio di Dio, fratello o sorella dell’umanità.        

 

Oggi facciamo memoria di Rabbi Akivà, maestro in Israele.

 

Akivà era nato a Lydda intorno al 50 d.C.  Figlio di un proselito di nome Yosef, fino a quarant’anni fu povero, ignorante e, per dire così, anticlericale. Soleva infatti dire: Se incontrassi uno studioso della Bibbia, lo morderei come un somaro (Talmud, Pesachim 49b). Era pastore alle dipendenze di un ricco soprannominato Kalba Savua, perché si diceva che chiunque entrasse nella sua casa affamato come un cane (kalba), se ne ripartiva satollo (savua). Lì si innamorò della bella figlia di lui, Rachel, che accettò di sposarlo a patto che si mettesse a studiare seriamente la Bibbia. E fu un successo. Anche se questo significò per lei, almeno in un primo momento, la perdita dell’eredità paterna. Divenuto maestro famoso, Rabbi Akivà non dimenticò mai le sue umili origini e fu molto amato dal suo popolo. Insegnava che, tutto ciò che ci accade, Dio lo volge prima o poi al nostro bene. Sosteneva anche che ogni essere umano è creato a immagine di Dio e che per piacere a Dio non è necessario conoscere e praticare la Legge di Mosè (che è prerogativa e vocazione particolare d’Israele). È sufficiente vivere secondo la morale dettata dalle norme elementari della legge di Noè (vivere secondo giustizia, non praticare idolatria, non commettere incesto, non uccidere, non rubare, non prostituirsi, non cibarsi di carne viva). Amò molto il Cantico dei Cantici, diceva che alla sua luce possiamo leggere tutta la Bibbia come un rapporto d’amore tra Dio e il suo popolo. Questo lo spinse a battersi perché fosse incluso nel canone della Bibbia ebraica. Quando scoppiò la rivolta antiromana di Shimon Bar Kokhbà, la appoggiò con convinzione, convinto del suo carattere messianico. La rivolta fu soffocata nel sangue. Akivà, imprigionato per non aver obbedito al divieto imperiale di insegnare pubblicamente la Torah, fu condannato alla dilacerazione delle membra per mezzo di arpioni. La condanna fu eseguita il 25 settembre dell’anno 135 (9 del mese ebraico di Tishri) e Rabbi Akivà morì il giorno successivo, festa dello Yom Kippur. Le sue ultime parole furono: Adonai ehad. Il Signore è uno solo. 

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Libro dei Proverbi, cap.21, 1-6.10-13; Salmo 119; Vangelo di Luca, cap.8, 19-21.

 

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali africane.

 

In una delle lezioni magistrali pronunciate all’inizio dell’anno 2000 all’Università di Bologna, raccolte nel libro “Sei riflessioni sul Talmud” (Bompiani), il Premio Nobel per la Pace Elie Wiesel ha rivisitato la figura di Rabbi Akivà (o ’Aqiba), così come ci è stata tramandata dal Talmud. Nel congedarci, scegliamo di proporvene un brano come nostro  

 

PENSIERO DEL GIORNO

’Aqiba e il figlio stavano camminando nel bosco, quando si fermarono nei pressi di un pozzo. ’Aqiba domandò a qualcuno che si trovava lì vicino: “Chi ha bucato questa pietra?”. “Le gocce” fu la risposta. “Sono state loro. Se una quantità sufficiente di gocce cade sulla pietra, per un perido sufficientemente lungo, la pietra si modifica”. Disse ’Aqiba: “Se la pietra può ricevre le gocce d’acqua, il mio cuore può ricevere la Torah”. E così ’Aqiba e il figlio andarono da un maestro e iniziarono a imparare l’Alef-Beth. Aveva quarant’anni. Capite: Rabbi ’Aqiba fu il fondatore dell’educazione ebraica rivolta agli adulti. Non c’è da stupirsi che, come noi, Rahel si sia innamorata di lui. Inizialmente studiò con rabbi Nahum Ish Gamzu, una figura leggendaria che nell’arco di tutta la sua vita rese grazie a Dio per qualunque cosa buona o cattiva. Era chiamato Gam-zu, in quanto la sua espressione preferita era “gam zu letovah, tutto va per il meglio”. Fu la sua influenza a permettere ad ’Aqiba di accettare la propria sofferenza con tanta serenità? In seguito studiò con rabbi Eli’ezer ben Hananya. La leggenda vuole che sia rimasto lontano da casa per dodici anni. Di ritorno, gli capitò di ascoltare, senza essere visto, una discussione tra Rahel e un vicino geloso e maligno: “Tuo padre ha fatto bene a diseredarti”, questi le diceva. “’Aqiba non ti merita. Ma non vedi che ti ha lasciato, che ti ha abbandonato per dodici anni?”. “Se dipendesse da me” rispose Rahel, “continuerebbe gli studi e ripartirebbe per altri dodici anni”. ’Aqiba non entrò nemmeno in casa . Tornò alla yeshivah per altri dodici anni. Questa storia dovrebbe insegnare alle donne a fare più attenzione alle loro parole e agli uomini a imparare ad ascoltare più attentamente: non si deve origliare da fuori, bisogna entrare dentro. Ma quando finalmente tornò, il giovane pastore oramai divenuto rabbi ’Aqiba, fu accolto da tanti ammiratori (secondo una fonte aveva ventiquattromila discepoli) che Rahel non riuscì nemmeno ad avvicinarsi. Ad un certo punto, egli la riconobbe tra la folla e disse: “Fate largo, lasciatela passare, perché sheli ve-shelakhem, shelah hu, tutto ciò che voi ed io abbiamo cercato di ottenere e che abbiamo ottenuto, lo dobbiamo a questa donna”.  (Elie Wiesel, Sei Riflessioni sul Talmud).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 28 Settembre 2012ultima modifica: 2012-09-25T22:06:00+02:00da
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