Carissimi,
“State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 6, 1). Stasera nella chiesetta dell’Aparecida, ci dicevamo che questa è forse la motivazione più comune che guida le nostre azioni. Giuste o meno che siano, ciò che si cerca è richiamare l’attenzione e possibilmente suscitare l’ammirazione degli altri (o anche solo dell’altro che ci portiamo dentro!). Questo spiega il senso di frustrazione che ci prende quando gli altri non si accorgono di ciò che facciamo (e qualche volta, a dire il vero, è meglio!) e arrivano magari ad apprezzare di più il disimpegno indubitabilmente inferiore al nostro di qualcun altro. Invano la parola del profeta ci aveva ammonito: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio” (Mi 6, 8). Uno dei grandi maestri chassidici, Rabbi Giacobbe Isacco di Pzysha, lo Jehudi, insegnava che ci sono tre diversi gradi nel servizio che rendiamo con la nostra vita a Dio. Il grado più alto è quello di chi, pur avendo compiuto buone azioni durante tutto il giorno, giunto a sera, si sente come se non avesse fatto nulla di buono. Il secondo è quello di chi effettivamente non ha combinato nulla, ma ne è consapevole. Per costui, dice il rabbi, c’è ancora speranza che possa correggersi. Chi però si ritiene giusto, occupa il livello più basso dei tre e inganna se stesso: le sue buone azioni andranno perdute. A questo punto, a noi non resta che disperarci. Ma, forse, proprio per questo, possiamo cominciare a sperare.
La data di oggi ci porta le memorie di Evelyn Underhill, mistica e predicatrice anglicana e di Germaine Cousin, pastorella e contemplativa.
I testi che la liturgia odierna propone oggi alla nostra riflessione sono tratti da:
2ª Lettera ai Corinzi, cap. 9, 6-11; Salmo 112; Vangelo di Matteo, cap.6, 1-6.16-18.
La preghiera del mercoledì è in comunione con quanti ricercano l’Assoluto della loro vita, nella testimonianza per la pace, la fraternità e la giustizia.
Commovente davvero, e anche in certo modo solenne, il commiato di José Valdir, che oggi, al termine dei nove mesi di trattamento, ha lasciato la chacara di recupero per fare ritorno a casa. La moglie, i due figli, l’anziano padre e il resto della numerosa famiglia, e noi, a vario titolo, suoi compagni di cordata, ci si è ritrovati stamattina, assieme al vescovo, a due pastori, al diacono permanente del suo paese, che è stato il tramite della sua venuta qui, in una cerimonia ecumenica, con cui si è voluto dir grazie al buon Dio e anche al nostro amico per l’esemplarità di questo tempo trascorso in mezzo a noi. Premessa e garanzia di una storia nuova.
Per stasera è tutto. Noi ci si congeda qui con una citazione di Evelyn Underhill, tratta dal suo “The Spiritual Life”. Che è, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
La gente del nostro tempo è indifesa, confusa e ribelle, incapace di interpretare quanto accade e piena di apprensione per l’avvenire, in gran parte perché ha perso quel saldo contatto con l’eterno, che dà ad ogni vita significato e direzione e che, con significato e direzione, dà sicurezza. Non intendo con questo ad una fuga dai problemi e dai pericoli, ad una scappatoia dalla realtà al fine di godersi l’eterno. Penso invece a un’accettazione e ad un vissuto della realtà nei suoi dettagli più semplici e nelle sue domande ultime, alla luce dell’eterno; e con quel senso particolare di basilare sicurezza che solo un contatto con l’eterno permette. Quando arriviamo a possedere davvero la vivida realtà significata da queste parole piuttosto astratte, quando a ciò che è immutabile in noi è offerta la sua occasione ed esso emerge dal flusso continuo delle alterne vicende per riconoscere la sua vera casa e il suo traguardo, che è Dio – allora, anche se molta sofferenza può, anzi deve, restare, l’apprensione, la confusione, l’instabilità, la disperazione cesseranno. Questo è, naturalmente, ciò ci cui si occupa la religione: questa adesione a Dio, questa fiduciosa dipendenza da ciò che è immutabile. Questa è la vita più abbondante che, nel suo particolare linguaggio e nella sua specifica maniera, ci chiama a vivere. Perché è la nostra parte nell’unica vita dell’intero universo degli spiriti, la nostra partecipazione alla grande corsa verso la Realtà, la tendenza di tutta la vita a cercare Dio. Che l’ha fatta per sé, ed ora la stimola e la guida; noi siamo già adattati ad essa, proprio come un pesce è adattato a vivere nel mare. La visione della nostra situazione ci riempie di un certa timorosa ed umile gioia. Ci libera da ogni assillante agitazione per noi stessi, ci evita di sentirci importanti nelle nostre piccole avventure spirituali; e tuttavia le rende meritevoli di far parte di una grande avventura spirituale. (Evelyn Underhill, The Spiritual Life).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.