Carissimi,
“Gli dissero allora: Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio? Gesù rispose loro: Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato” (Gv 6, 28-29). La notizia di ciò che era accaduto (Gv 6, 1-15) doveva essersi sparsa in un batter d’occhio, se, ora, la gente accorreva da una riva e dall’altra del lago, alla ricerca di Gesù (v. 24). E c’era chi aveva presenziato al fatto e sperava forse si potesse ripetere, e altri spinti dalla curiosità. Gesù, dal canto suo, era tornato a Cafarnao, dove abitava. E quando lo trovano, sembra addirittura indispettito: “Voi non mi cercate perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato quei pani e vi siete saziati” (v. 26). Che poi è ciò che, molte volte, si cerca con la religione, istituzionale o fai-da-te, comunitaria, privata, personalissima, quale ne sia l’entità che la fonda e la sostiene, Dio, lo Stato, il Mercato, la Razza, la Patria, la Tribù, la Famiglia, e quant’altro, e i valori che la orientano. Ciò che importa è che io riceva e mi sazi del pane, simbolo di tutto ciò che garantisce la mia sopravvivenza e il mio benessere e, se sono particolarmente generoso, del mio gruppo. Gesù pretende altro. Si aspetta che noi sappiamo leggere nel suo gesto il nostro pane. Se assumeremo quello come alimento della nostra vita e lo moltiplicheremo nello spazio delle nostre relazioni, arriveremo a moltiplicare anche il pane, per noi e per tutti. Credere in Gesù, fare cioè di Lui – del suo sguardo, del suo agire – il criterio della nostra vita, è compiere l’opera di Dio. Allora, “cercate in primo luogo il regno di Dio, e ogni altra cosa vi sarà data in aggiunta” (Lc 12, 31). Sì, va bene, ma il regno cos’è? È che “il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita” (Mc 10, 45). Non semplicemente distribuire pane, ma farsi pane. E ci chiede di fare lo stesso. Perché è questo che cambia il mondo. Solo una cosa in più, che per noi è un altro pezzo di Vangelo per questi nostri giorni. In forma di lettera dell’amico Paolo Farinella di Genova. Il quale ci cita e risponde: “Un’amica ci scriveva ieri: ‘È il pensiero che mi accompagna ogni sera: la promessa di una giornata finalmente capace di dono, di generosità, di gioia, che avevo intravisto al mio risveglio, si è arenata ancora una volta in mezzo a mille meschinità, perdite di tempo, lavori fatti per fare, impazienze, recriminazioni. Ed io mi ritrovo solo un po’ più cattiva, mediocre e frustrata di quanto non ero’. Dite alla vostra amica di ieri, di oggi e di domani, che lei vive solo la “Legge della impossibilità” codificata in tutta la Bibbia e formulata da san Paolo nella 1 Corinzi, capitolo 2: Dio sceglie ciò che nel mondo è nulla per confondere le cose che sono e quindi per costruire il suo Regno. Lei è nel cuore del vangelo, solo perché ne prende coscienza. Le manca forse una cosa: trasformare tutto questo in preghiera, compreso il senso di fallimento e di inutilità come faceva la grande mistica di strada Marie Noël. Ditele anche che è presente nella preghiera di questa comunità. Un abbraccio solenne, pasquale e mai rassegnato. Rassicurate Cleusa/Cleopa che anche lei e suo figlio appollaiati nel nostro affetto e nella nostra preghiera”. L’abbiamo trasmesso a chi di dovere, ma lo custodiamo anche per noi e l’offriamo a voi. Ringraziando lui. E Lui.
Il calendario ci porta oggi le memorie di Nicolaus Ludwig von Zinzendorf, riformatore religioso e sociale e quella di Luis Dalle, vescovo, amico dei poveri in Perù.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.6, 8-15; Salmo 119, 23-30; Vangelo di Giovanni, cap. 6, 22-29.
La preghiera di questo lunedì è in comunione con le grandi religioni dell’India, Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.
“Esercitare la memoria è esercizio da praticare tutti i giorni perché il rischio è ribaltare le cose, raccontare altre vicende, mettere i giusti dalle parte sbagliata. Questo è il torto peggiore che si possa fare alla storia e alla memoria delle persone”, lo diceva l’altro ieri in un’intervista Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, assassinato dalle Brigate Rosse, il 12 febbraio del 1980. Questo è anche il senso della Giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice, che si è celebrata oggi nel vostro Paese e che il vostro Presidente ha voluto dedicare quest’anno ai magistrati caduti a causa del loro servizio allo Stato. Replicando a chi, anche ricoprendo autorevolissime funzioni nel governo della cosa pubblica, si diverte a sparare impunemente a zero su quanti hanno l’unico torto di ricercare la verità e affermare le ragioni di una giustizia uguale per tutti, il Presidente Napolitano ha detto: “Ci si soffermi su quei nomi, quei volti, quelle storie, per poter parlare responsabilmente della magistratura e alla magistratura, nella consapevolezza dell’onore che ad essa deve esser reso come premessa di ogni produttivo appello alla collaborazione necessaria per le riforme necessarie. E sia in noi tutti chiara e serena la certezza che le pagine di quest’opera, i profili e i fatti che presenta, le parole che raccoglie sono come pietre, restano più forti di qualsiasi dissennato manifesto venga affisso sui muri della Milano di Emilio Alessandrini e Guido Galli, e di qualsiasi polemica politica indiscriminata”. Ne siamo convinti anche noi.
Per stasera è tutto. Noi ci congediamo qui, lasciandovi ad un brano di intervista concessa da Agnese, figlia di Aldo Moro, ucciso in un giorno come questo, trentatre anni fa. È raccolta nel libro “Sedie vuote. Gli anni di piombo: dalla parte delle vittime” (Il Margine) ed è, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Credo che nell’omicidio di mio padre, come in quello di tante altre vittime del terrorismo, vi fosse l’intenzione di fermare la storia di quella “democrazia del valore umano”, per dirla con papà, nella quale tutti insieme si costruisce qualcosa di bello e di buono. In questo sono confortata da un bellissimo articolo che papà scrisse nella primavera del ’77: era intitolato Agire uniti nella diversità e lo pubblicò su “Il Giorno”. Mio padre vi esprimeva un giudizio netto sul senso della violenza politica. Scriveva: “Il motivo che più amareggia e offusca la speranza di questi giorni è la constatazione non tanto della divisione, quanto di una divisione sottolineata e difesa dalla forza brutale ed ingiusta; della violenza aperta e di quella paurosamente tramata nell’ombra e non per contrastare altra violenza cristallizzata e potente, ma proprio per contestare la libertà, nella quale si cammina verso il superamento di un passato finito e l’apertura di nuovi e più ampi orizzonti”. Non so dire se il rapimento e l’assassinio di mio padre possano essere definiti un golpe, ma sicuramente la scelta di eliminare mio padre ha avuto come prima conseguenza il blocco di quanto di bello, di buono, di valido si andava costruendo e non ha per nulla contribuito a lottare per la liberazione e per la vita. Se si osserva la vita di tutte le persone uccise dal terrorismo e dallo stragismo si nota come queste siano state persone di grande valore, che avevano fatto crescere la società civile e la democrazia. In tutto questo si deve riconoscere che le Br, che sono state sconfitte, hanno in qualche modo vinto, deviando significativamente il corso della storia della democrazia italiana. Deviandola, non distruggendola. (Agnese Moro in “Sedie vuote. Gli anni di piombo: dalla parte delle vittime).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.