Carissimi,
“Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato” (Gv 7, 28-29). Per aver detto questo, cercavano di arrestarlo (v. 30). Stamattina ci dicevamo che noi, a rigore, di Gesù, sappiamo anche più di quanto sapessero gli abitanti di Gerusalemme, suoi contemporanei. Siamo, infatti, più o meno tutti(e), passati per anni di insegnamento della religione a scuola, abbiamo frequentato tutte le tappe del catechismo, siamo da tempo (per alcuni immemorabile) uditori pazienti della Parola di Dio e delle omelie che ce la illustrano, eppure se ci pensiamo bene, continuiamo a non conoscere Colui che l’ha mandato. Tanto è vero che la nostra vita non ha quasi nulla di diverso da quella degli altri. Pensiamo, diciamo, facciamo tutti le stesse cose. Che non sono proprio quelle che Lui ci ha insegnato. Beh, un momento, noi almeno andiamo in chiesa! Proprio come quelli a cui Gesù si rivolge nel Vangelo di oggi, che stavano nel Tempio. E sono loro (cioè, noi) che vogliono arrestarlo, metterlo a tacere, farlo morire. Che siano altri a voler soffocare ciò che Lui significa, il Principio della cura, dell’accoglienza, del dono nelle relazioni umane, potrebbe anche essere del tutto normale; hanno un dio diverso, è, cioè, un altro il significato ultimo che ritengono unificante per la loro vita: il guadagno, la ricchezza, il successo, l’affermazione di sé (anche nelle sue proiezioni collettive di partito, nazione, patria, civiltà, cultura, religione…); il problema si pone per noi che affermiamo di conoscerlo e che lo disconosciamo appena abbiamo varcato le porte della chiesa (o anche prima di averle varcate). Al punto di fare della croce, che è il simbolo del “preferisco morire io, purché tu viva”, l’arrogante affermazione di una [in]civiltà che disprezza, rifiuta, combatte e, quando riesce, sconfigge l’altro. Dimenticando che il Crocifisso, nel frattempo, ha traslocato ed è ora proprio nell’altro che soccombe e muore.
Il martirologio latinoamericano ci porta oggi la memoria di Armando Carlos Bustos, cappuccino, piccolo fratello del Vangelo, martire per la giustizia sotto la dittatura argentina.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro della Sapienza, cap.2, 1a. 12-22; Salmo 34; Vangelo di Giovanni, cap.7, 1-2. 10. 25-30.
La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.
E, per ricordare questa giornata, vi offriamo in lettura, nel congedarci, un testo della scrittrice serba di etnia rom, ma che abita e opera in Italia come mediatrice culturale, Dijana Pavlovic. Il brano è apparso su L’Unità del 19 giugno 2008. È una voce che interpella tutti. Ed è, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
A sette anni scoprii che per i miei compagni di classe ero una “zingara”. Ero disperata. Mia madre mi ha detto: «Peggio che zingari è essere ignoranti. Studia per essere uguale agli altri». Allora avevo tanta paura di quello che ero. Poi sono arrivati gli anni 90 e le paure sono aumentate: il crollo della Jugoslavia, la guerra, la fame, la paura del futuro, dei musulmani albanesi e bosniaci, dei croati, dei serbi nazionalisti, della dittatura. Mi ha salvato avere amici bosniaci musulmani, croati, leggere libri che uscivano a Tirana, a Zagabria, a Sarajevo, condividere esperienze teatrali ai rari festival teatrali. Da dieci anni vivo in Italia e ho sentito crescere intorno a me paure analoghe: la paura degli zingari che rubano i bambini, dei musulmani tutti terroristi, dei neri, dei cinesi, di tutti quelli che sono diversi da noi per etnia, per religione. E insieme con la paura ho visto crescere l’indifferenza per il destino degli altri. Paura e indifferenza seminate a piene mani dalla politica e dai mezzi di comunicazione i cui frutti sono una società piena di cattiveria, disgregazione, solitudine. Un bambino rom muore bruciato in un campo della disperazione? Normale. I bambini “stranieri” segregati in classi diverse avranno un futuro separato? Normale. I musulmani, costretti a pregare in moderne catacombe, non ci vogliono bene? Normale. Ora la mia paura è che non si possa far nulla contro l’odio e l’indifferenza per l’altro. Mi aiuta, ora come allora, quello che mi ha detto mia madre: studia per superare il pregiudizio. La libertà di spirito nessuno ce la può togliere, né la televisione né la cattiva amministrazione. È ciò che ci mette in condizione di dire una semplice parola davanti ai grandi imprenditori della paura e dell’odio: no! È l’unico potere che possiamo avere ed esercitandolo avremo la speranza di un futuro migliore per tutti. (Dijana Pavlovic, Alfabetizzazione, solo la cultura potrà fermare il pregiudizio).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.