Carissimi,
“A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno” (Mc 4, 30-31). Le parabole ascoltate oggi sono state due. La prima era quella dell’uomo che semina, e poi il seme fa tutto per conto suo, là sotto terra, marcisce, sembra morire, e invece sta nascendo come cosa nuova, cresce, fora il terreno, si fa stelo, mette la spiga, che si riempie di chicchi. E Valdeci diceva che succede un po’ così anche coi figli, che l’uomo semina, e poi può esserci o non esserci, star sveglio o dormire, e quelli come un miracolo ti crescono dentro e poi nascono e sono già anche loro un’altra cosa. Anzi, non smettono mai di esserlo. E cita un salmo che cantiamo spesso: “Tu me teceste no seio materno, e me formaste com tuas proprias mãos” (Sal 139, 13). Lo diciamo a Dio: “Tu mi hai tessuto nel seno materno, e mi hai formato con le tue stesse mani”. Così è anche per il Regno: noi ci mettiamo, quando ce la mettiamo, la materia prima, il resto lo fa Lui, il suo Spirito. La seconda parabola è quella che ci insegna come si manifesta il Regno. È nelle cose piccole, negli eventi a prima vista insignificanti, negli ultimi che accettano di essere il seme più piccolo, quello di senape, che si lascia seminare e che, se potesse ragionare, si dispererebbe e griderebbe al seminatore: Che fai, mi vuoi morto? Come, infatti, Gesù, cioè Dio divenuto il seme più piccolo, muore, ma riveve ogni volta come arbusto alla cui ombra si riparano tutti gli uccelli. Così può essere di noi: ogni volta che davvero riusciamo a morire a noi stessi (che è più difficile e duro del semplice morire), nasce, cresce e si manifesta il regno, come accoglienza e ospitalità offerta a tutti.
Due sono le memorie di oggi, per la prima delle quali confessiamo di nutrire un vero e proprio debole, a causa della simpatia del personaggio. Si tratta di Rabbi Sússja di Hanipol, mistico ebreo e folle di Dio, che ricordiamo con Tommaso d’Aquino, prete, teologo e dottore della Chiesa.
Le letture proposte dalla liturgia odierna alla nostra riflessione sono tratte da:
Lettera agli Ebrei, cap.10, 32-39; Salmo 37; Vangelo di Marco, cap.4,26-34.
La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.
Noi ci si congeda qui, lasciandovi ad un fioretto di Rabbi Sússja, tratto da “I racconti dei Chassidim” (Garzanti) di Martin Buber. Che è, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Un uomo della città di Sussja vide che egli era molto povero e mise ogni giorno un ventino nella sua borsa dei tefillin, perché potesse sostentare sé e i suoi. Da allora l’agiatezza dell’uomo crebbe ogni volta. Quanto più possedeva, più dava a Sussja, e più gli dava, più possedeva. Ma una volta riflettè che Sussja era un discepolo del Grande Magghid e gli venne in mente questo: se già il dono allo scolaro veniva ricompensato così copiosamente, quale ricchezza gli sarebbe venuta se avesse donato al maestro! Così partì per Mesritsch e con molte preghiere ottenne che Rabbi Bär accettasse da lui un dono cospicuo. Da quel momento la sua agiatezza cominciò a diminuire sempre di più, fino a che tutto il guadagno del tempo benedetto fu scomparso. Allora, nella sua afflizione, andò da Rabbi Sussja, gli raccontò tutto e gli chiese che significasse: gli aveva pur detto sempre che il maestro era infinitamente più grande di lui. Sussja rispose: “Vedi, fino a che tu davi e non guardavi a chi davi, Sussja o un altro era lo stesso, anche Dio ti dava e non stava a guardare a chi dava. Ma quando hai incominciato a cercare gente più nobile e più eletta a cui donare, Dio ha fatto lo stesso”. (Martin Buber, I racconti dei Chassidim).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.