Carissimi,
“Gesù stava insegnando in una sinagoga in giorno di sabato. C’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni; era curva e non riusciva in alcun modo a stare diritta. Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: Donna, sei liberata dalla tua malattia. Impose le mani su di lei e subito quella si raddrizzò e glorificava Dio” (Lc 13, 10-13). Stamattina ci dicevamo che questo Vangelo (ma anche altri) contribuisce a sfatare due luoghi comuni: quello di chi immagina un Gesù secolarizzato o in rotta di collisione con la sua religione (tanto che avrebbe pensato bene di fondarne un’altra!!), e quello di chi pensa alle donne dell’epoca come tutte segregate in casa. E invece Gesù era un fedele parrocchiano (tutti i sabati in sinagoga e in tutte le feste comandate al Tempio), ma anche così appassionato di Dio e della sua Parola, che i preti del tempo si dovevano segnare per la disperazione ogni volta che lo vedevano spuntare dalla porta. Le donne, poi, erano dappertutto fuorché in casa. Il Vangelo ce le mostra autonome, indipendenti, piene di iniziativa, per strada, in viaggio (senza un pezzo di giustificazione ai rispettivi padri o mariti), al seguito di Gesù, in beato ascolto o interlocutrici sfrontate, al pozzo, in chiesa, in piazza, nel deserto, sulla via del Calvario, ai piedi della croce, al sepolcro e così via. Anche quella di oggi, sofferente, inferma e curva, mica dall’altro ieri, da diciotto anni (se un uomo, sesso forte, ha due linee di febbre, per più di un’ora, si stende subito a letto, prossimo a morire), lei, in casa, non ci sta neppure legata. Ed è buon per lei che, proprio quel giorno, si sia decisa ad andare in sinagoga. Perché avrebbe incontrato Lui. Ora, quella donna (ogni donna) piegata su se stessa, che non è messa in condizione di stare ritta in piedi, è immagine di una società malata, e perciò anche di una comunità, di una chiesa, malata. Guarigione della donna oppressa è Gesù, il divino nell’umano e, perciò, anche l’umanità nuova. Non semplicemente uomo, ma uomo generato (ed educato, potremmo aggiungere) da una donna (Gal 4,4) e solo da lei e dalla sua esperienza del divino, senza conoscere uomo (Lc 1, 34). Perché l’universo maschile e le sue categorie (anche sacrali) si sono rivelate incapaci di dire la salvezza nella storia, strutturate come sono in termini di opposizione, competizione e dominio. Essa, perciò, la sperimenteremo ogni volta che la donna si sottrae all’imposizione di (o all’adeguamento a) modelli di potere, per generarsi e generare un’umanità nella figura del dono. Raddrizzata lei, guariranno la società e la chiesa. Guariremo anche noi.
Oggi facciamo memoria di Henri Perrin, preteoperaio, e di Antonio Llidó, prete al servizio degli ultimi, martire in Cile.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera agli Efesini, cap.4, 32-5,8; Salmo 1; Vangelo di Luca, cap.13, 10-17.
La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.
Non abbiamo sottomano scritti di Henri Perrin né di Antonio Llidó. Però, in rete c’è un bel sito di pretioperai, dove noi abbiamo navigato un po’, finché, sotto la rubrica “Frammenti di vita raccontati dai pretioperai”, abbiamo trovato la testimonianza di uno di loro, Oliviero Ferrari, e scegliamo di proporvela, nel congedarci, come nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Mi giro indietro ogni tanto e cerco di pensare a quello che sono stato in questi 20 anni, alla strada che ho percorso. Visto che ho camminato tanto, mi guardo indietro anche per rendermi conto dove sono arrivato, dove sono. Vent’anni passano come un rullo compressore, pesano come un macigno; sono una vita, lasciano segni, cicatrici, i colpi di scalpello sono tanti. Alla fine mi trovo dove forse prima non immaginavo. Pensavo di evangelizzare e sono andato soprattutto ad ascoltare. Avevo in tasca Gesù Cristo, ma per strada ne ho trovato un altro. Volevo costruire una chiesa, ma ho visto che c’era già. Avevo un bagaglio e mi sono accorto di averlo perso per strada. Se mi guardo allo specchio mi accorgo di non essere più quello di una volta: vent’anni di vita sono una doccia che spazza via tante cose, non solo lo sporco. Sono più povero, non sono più uno del tempio e il guaio è che non lo sarò mai più. I sentieri percorsi mi hanno portato lontano, da dove è difficile tornare. Vent’anni vissuti intensamente in fabbrica, in casa (40 metri quadri) con stranieri, drogati, sbandati, giovani, vecchi, fuggiaschi di ogni parte del mondo: ridendo, lavando, piangendo, fra notti insonni e gioie profonde, mi hanno fatto dimenticare di essere un prete. E penso anche che, se sono riusciti a portarmi via tutto, ne devo ringraziare Dio, perchè sono riusciti dove non sono arrivato io con tante meditazioni. Mi sono accorto di essere diventato un povero diavolo quando mi sono trovato davanti alla polizia in questura, in un Commissariato. Non mi rispettavano; mi hanno riso in faccia quando mi sono presentato come prete… Mi hanno chiesto se conoscevo qualcuno che garantisse per me. Allora ho fatto l’elenco dei miei amici: non è bastato. Per poco non mi arrestano, perchè avevo troppi amici che loro conoscevano bene per averli “blindati” più d’una volta. Eppure sono contento di aver percorso una strada che mi ha portato lontano, tanto lontano da non poter tornare indietro. Ringrazio Dio di aver imparato a pregarlo con poche parole, che mi ha insegnato a guardare ai poveri senza arrossire e lo prego che, quando mi chiamerà, io sia come quando sono uscito dal ventre di mia madre. (Oliviero Ferrari, Tanto lontano da non poter tornare indietro).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.