Carissimi,
“Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano” (Lc 18, 9-10). In ballo c’è la gente di chiesa, non gli altri. Gesù, cioè, almeno in questa occasione, parla a noi e dice di noi. Di noi a cui capita, una volta o l’altra, o anche sempre, di pregare, dando voce a ciò che siamo o pensiamo di essere. Non è una parabola simpatica, perché, gira e rigira, noi non si vorrebbe essere nessuno dei due personaggi, e invece ci tocca riconoscere che ce li portiamo dentro entrambi. Qualche volta, per giunta, a parti invertite: con la pratica del pubblicano (peccatori sino al midollo) e la preghiera del fariseo (ritenendoci comunque migliori degli altri e disprezzandoli). Tempo fa un amico ci aveva scritto: se mi capita di restare dieci minuti senza peccare, ecco che, dall’alto della virtù che ho improvvisamente raggiunto, già mi sento in dovere di giudicare. Beh, siamo convinti che esagerasse, però, quello del giudicare, è un rischio concreto. Dominga confessava l’altra mattina con ridanciana impunità: io giudico sempre tutti, è più forte di me. Eppure, già questa confessione era la preghiera del pubblicano. Perché era riconoscimento dell’inadeguatezza del giudizio, che è sempre infinitamente al di sotto e, comunque, qualitativamente all’opposto del Suo non-giudizio. Roberto diceva: che ne so io della storia degli altri, per poterli giudicare? Eppure. Ci viene in mente la storia di abba Mosè l’etiope, chiamato a giudicare il peccato di un monaco del deserto di Scete. Dopo aver inutilmente resistito, vista l’insistenza degli altri fratelli, si recò dove la comunità si era riunita, portando sulle spalle una cesta forata, piena di sabbia. Gli chiesero: Padre, che significa? Rispose: sono i miei peccati che scorrono dietro di me, senza che io li veda. Ed oggi sono qui per giudicare i peccati degli altri. A questo punto, ovviamente, non se ne fece nulla e il fratello fu perdonato. Già, cosa esprime la nostra preghiera? Quella nostra personale e quella della nostra chiesa. Quale relazione con gli altri? Di solidarietà fraterna e corresponsabilità, o di superiorità, ostilità e distanza? E con Dio? Di coinvolgimento e complicità con il suo essere Padre di tutti, o di interessato stravolgimento della sua immagine? E con noi stessi? Di vanagloria e autosufficienza, o di pentimento e di riconoscimento della propria nullità, pronta ad essere riempita dalla sua grazia?
I testi che la liturgia di questa XXX Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro del Siracide, cap. 35, 12-14.16-18; Salmo 34; 2ª Lettera a Timoteo, cap. 4, 6-8.16-18; Vangelo di Luca, cap.18, 9-14.
La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.
Oggi il nostro calendario ecumenico ci porta la memoria di Rabbi Levi Isacco di Berditschev, mistico ebreo.
È tutto. Noi ci congediamo qui, con un aneddoto che ha per protagonista Rabbi Levi Isacco di Berditschev, e per tema la preghiera e lo Spirito del Male che può pervaderla. È tratto da “I racconti dei Chassidim” (Garzanti), di Martin Buber. Ed è, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Da giovane Levi Isacco, per le sue doti sorprendenti, fu scelto come genero da un uomo ricco, come era uso. Nel primo anno del suo matrimonio, per la considerazione di cui godeva suo suocero, il giorno della Gioia della Torà gli fecero l’onore d’invitarlo a recitare la preghiera “Ti è stato rivelato” davanti alla comunità. Egli andò al leggio e restò immobile per un certo tempo. Il suo talled giaceva sul leggio. Egli stese la mano e lo prese per avvolgersene; ma poi lo posò di nuovo e rimase immobile come prima. I capi della comunità mandarono un servo a sussurrargli che non stancasse l’adunanza, ma cominciasse. “Sì”, disse egli e prese in mano il talled e l’aveva quasi indossato che lo posò di nuovo sul leggio. Il suocero si vergognava di fronte alla comunità, tanto più che s’era tante volte vantato dell’eccellente giovane che aveva acquistato alla sua casa. Adirato ordinò di dirgli che cominciasse subito la preghiera o lasciasse il leggio. Ma prima ancora che il messaggero fosse arrivato da lui, risuonò improvvisamente la sua voce: “Se sei versato nella Torà e sei un chassid, di’ tu la preghiera”. E ritornò al suo posto. Il suocero tacque. Ma quando furono a casa e Levi Isacco sedette alla tavola festiva, raggiante della gioia che si conviene a quel giorno, quegli non potè trattenersi ed esclamò: “Perché mi hai fatto questo disonore?”. Per risposta il Rabbi raccontò: “Quando stesi la prima volta la mano per tirarmi il talled sopra il capo, l’Istinto del Male venne e mi sussurrò all’orecchio: Io dirò insieme a te: Ti è stato rivelato. Io chiesi: Chi sei tu da esserne degno? E lui: E chi sei tu da esserne degno? Io sono versato nella Torà, dissi io. Anch’io sono versato nella Torà, replicò lui. Per chiudergli la bocca, dissi con disprezzo: Dove hai studiato? E lui di rimando: Dove hai studiato? Glielo dissi. Ma c’ero anch’io con te, mi sussurrò ridendo, vi ho studiato con te. Riflettei un poco. Ma io sono un chassid, gli obiettai trionfalmente. E lui imperturbabile: Anch’io sono un chassid. Io: Da chi sei andato? E di nuovo, come una eco: Da chi sei andato? Dal santo Magghid di Mesritsch, risposi io. Allora mi rise in faccia ancor più beffardo. Ma anche io ero con te e insieme a te sono diventato chassid. E perciò voglio recitare insieme a te: Ti è stato rivelato. Allora ne ebbi abbastanza. Lo lasciai lì. E che altro avrei dovuto fare?”. (Martin Buber, I racconti dei Chassidim).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.