Carissimi,
“Un sabato Gesù entrò nella sinagoga e si mise a insegnare. C’era là un uomo che aveva la mano destra paralizzata” (Lc 6, 6). Questi racconti evangelici di cura sono assai più che semplici resoconti di un qualche fatto avvenuto duemila anni fa. Sono una parola che dice rispetto alla nostra vita di fede; in questo caso, rispetto alla nostra maniera di essere nella chiesa, di essere chiesa. Gesù chiede: “In giorno di sabato, è lecito fare del bene o fare del male, salvare una vita o sopprimerla?” (v.9). Il problema oggi non è più quello del giorno di sabato, perché noi cristiani crediamo che l’evento di Gesù ci ha introdotti in un Sabato eterno. La domanda, quindi, assai più radicale è: che segno vogliamo dare alla nostra vita, o , anche, che razza di chiesa vogliamo essere? La mano paralizzata indica l’incapacità di fare il bene, paralizzata da quando ed ogni volta che si è tesa e si tende per cogliere il frutto che ci illudiamo possa fare di noi Dio (in realtà il suo contrario), nella forma del potere e non del dono. Ieri sera, nel suo sermone, il pastor Raimundo raccontava un aneddoto che tocca piuttosto da vicino le vicende [anche] di casa vostra. Diceva di un villaggio in un Paese europeo, in cui un giorno un gruppo di ragazzi si divertirono a prendere di mira un povero immigrato, sotto lo sguardo indifferente dei passanti: cominciarono col deriderlo, insultarlo, poi gli misero le mani addosso, e presero a spingerlo e a lanciarselo gli uni gli altri come fosse un pupazzo, finché una spinta di troppo gli fece battere violentemente la testa su una pietra e il tipo morì. La domenica, il prete, in chiesa, a commento del Vangelo, si limitò a dire, più alto che poteva: Cristiani! Tacque per un momento, poi ripetè: Cristiani! Il giorno del giudizio, quando mi presenterò a Dio e Lui mi chiederà: che ne hai fatto delle tue pecorelle?, io gli risponderò: non erano pecore, Signore, erano lupi. Già, e noi che siamo? Qual è il Cristo che predichiamo, che testimoniamo? “Guardandoli tutti intorno, Gesù disse all’uomo: Tendi la tua mano! Egli lo fece e la sua mano fu guarita” (v. 10). In questo consiste l’essere chiesa. Quando si prende cura e libera l’altro dal suo male, guarisce se stessa. Se non lo fa, è bugiarda e imbrogliona, potete giurarlo.
Oggi noi ricordiamo Charles Péguy, poeta di Dio.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
1ª Lettera ai Corinzi, cap.5, 1-8; Salmo 5; Vangelo di Luca, cap.6, 6-11.
La preghiera di questo lunedì è in comunione con le religioni del subcontinente indiano: Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.
È tutto per stasera. Noi ci congediamo, lasciandovi alla lettura di un brano di Charles Péguy, tratto dal suo “Il mistero della carità di Giovanna d’Arco”. Che è, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Ne abbiamo ricevuti abbastanza di avvertimenti. Tredici secoli di cristiani, tredici secoli di santi, tredici secoli di cristianità. Ne dovremmo sapere. Una volta. Una volta, due volte, tre volte. E il gallo cantò. Ma per noi è la millesima, è la centomillesima, è la centesima di millesime volte che Lo consegnamo; che L’abbandoniamo, che Lo tradiamo; che Lo disconosciamo, che Lo rinneghiamo. Migliaia e centinaia di migliaia di volte che Lo rinneghiamo nello smarrimento del peccato… Ahimè, ahimè, deve cominciare a esserci abituato. Gliene abbiamo dato l’abitudine; un’abitudine proprio a Lui; ce l’abbiamo abituato. Gli abbiamo dato questa singolare abitudine: di essere rinnegato. La stessa storia succede sempre. Grazie alla presenza reale, alla presenza di Gesu’, la stessa storia succede sempre… Gesù perdonò e istantaneamente, in anticipo aveva perdonato il rinnegamento di Pietro. Dio voglia che ci abbia preso l’abitudine; e che parimenti perdoni anche i nostri rinnegamenti innumerevoli. Dio voglia che Dio abbia preso l’abitudine. Dio voglia aver preso l’abitudine. Anche quell’abitudine. (Charles Péguy, Il mistero della carità di Giovanna d’Arco).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.