Carissimi,
“Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte? E Gesù gli rispose: Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette” (Mt 18, 21-22). Pietro aveva pensato di esagerare: sette volte infatti voleva già dire “sempre”, e Gesù, conoscendo la nostra debolezza, avrebbe potuto rispondergli: beh, basta tre, quattro, cinque, sei volte. E noi ci saremmo sentiti più tranquilli. O almeno, così, ci capita spesso di credere. Lui, però, che conosce i misteri del cuore umano più di chiunque altro, porta all’infinito l’esagerazione di Pietro: “settanta volte sette” sarebbe come dire, se si potesse dire, “semprissimo”. Perché, il mancato perdono non necessariamente e in primo luogo toglierà pace al soggetto da perdonare, ma continuerà a seminare inquietudine in colui che non perdona. Finché non perdona. Tutti, una volta o l’altra, ne abbiamo fatto l’esperienza. E, se vogliamo capirlo, sono questi gli aguzzini della parabola (v.34), a cui il buon Dio, benevolmente, ci consegna, finché riusciamo a pagare tutto il dovuto e ritrovando, in noi per primi, la pace, possiamo poi contribuire ad instaurarla in questo nostro mondo. E, con essa, il regno.
Le memorie di oggi sono tutte brasiliane. Ricordiamo infatti: Margarida Alves, martire per la giustizia, padre Alfredinho Kunz, missionario del “Servo sofferente”, mons. Antônio Batista Fragoso, vescovo dei poveri.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Ezechiele, cap.12, 1-12; Salmo 78; Vangelo di Matteo, cap.18,21 – 19,1.
La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.
Nella breve biografia di Dom Antonio Batista Fragoso, abbiamo accennato al Patto delle Catacombe, a partire dal quale il nostro vescovo costruì il suo progetto di vita. Convinti dell’importanza che quel documento ebbe e avrà per la vita di una Chiesa che voglia avere pastori seguaci fedeli di Gesù di Nazareth, scegliamo di proporvelo nella sua integrità. È questo per oggi il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di Nostro Signore Gesù Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti della nostre rispettive diocesi; ponendoci col pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli della nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue: – 1. Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende (cf Mt 5,3; 6,33s; 8,20). – 2. Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici) (cf Mc 6,9; Mt 10,9s; At 3,6). Né oro né argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative (cf Mt 6,19-21; Lc 12,33s). – 3. Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli (cf Mt 10,8; At. 6,1-7). – 4. Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre (cf Mt 20,25-28; 23,6-11; Gv 13,12-15). – 5. Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi) (cf Lc 13,12-14; 1Cor 9,14-19). – 6. Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale (cf Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,4). – 7. Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro (cf Lc 4,18s; Mc 6,4; Mt 11,4s; At 18,3s; 20,33-35; 1Cor 4,12 e 9,1-27). – 8. Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti (cf Mt 25,31-46; Lc 13,12-14 e 33s). – 9. Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio (cf At. 2,44s; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8 e 9 interi; 1Tim 5, 16). – 10. Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità – ci impegniamo: – a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere; – a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria. – 11. Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così: – ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro; – formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo; – cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti…; – saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione (cf Mc 8,34s; At 6,1-7; 1Tim 3,8-10). Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere. Aiutaci Dio ad essere fedeli. (Patto delle Catacombe).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.