Carissimi,
“Subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario” (Mt 14, 22-24). È come se Gesù si fosse detto: mettiamoli alla prova, per vedere se stanno imparando qualcosa. Come fa una madre col suo bambino, quando decide che non può più andare gattoni e deve avventurarsi nella pericolosa avventura del procedere eretto. O quando, già più cresciuto, è giunta l’ora che esca di casa e deve allora cominciare a sbrogliarsela da solo. Nel qual caso, come diceva Valdecí stamattina, non si saprebbe dire se abbia più paura la madre o il figlio. Forse, anche Gesù aveva qualche ragione di temere per quella sua combriccola di discepoli alle prime armi. Comunque Lui aveva loro mostrato come si deve essere, ciò che si deve fare: prendersi cura della fame degli altri. Senza nessun tornaconto. Tanto è vero che quando la folla, secondo il racconto parallelo di Giovanni, decise di “venirlo a prendere per farlo re” (Gv 6, 15), lui la congedò in fretta e se ne fuggì tutto solo sul monte. Non senza aver ordinato prima ai discepoli di salire in barca e di precederlo sull’altra riva. Allusione alla chiesa, la barca, a noi, quindi, spinti verso l’incognita del nostro futuro, muniti solo della sua parola. Ma, la parola, che non è presenza viva, palpabile, sappiamo per esperienza come sia facile ridurla a ripetizione meccanica, fredda e alla fine vuota, incapace di scaldarci il cuore, di parlare alla mente e di motivarci all’azione. Così alla prima mareggiata, – cosa c’è di più normale di un mare (una vita, una famiglia, una comunità, una società) in burrasca? – noi ce la siamo bell’e dimenticata. E se mai ci appare qualcosa che ce la ricorda, è questo che ci fa paura. Come si trattasse, appunto, di un fantasma, che viene ad aggiungersi alle nostre angosce, alla nostra disperazione. Lui, che dava per certo di essere ormai per noi la Parola che ci dà la vita, il pane donato che alimenta la nostra fame più vera, e fa di noi pane da condividere per la vita degli altri, ecco che puff, è sparito, non c’è più, è stato solo un sogno, un’illusione, forse addirittura un incubo. E ci vuole tutta la sua fatica per convincerci una volta di più che no, il segreto è davvero tutto lì, in quella mano tesa che ci è chiesto di saper scorgere nella fitta oscurità che, di tanto in tanto, grava sulla storia (anche solo quella piccola piccola della nostra barchetta personale o comunitaria), e a cui ci è chiesto di aggrapparci. E sarà la nostra fine (o il nostro fine), perché rimessi in piedi, fatti adulti nella fede, non si potrà che essere anche noi braccio che si tende, nel gesto della cura e della salvezza, solcando tutti i mari, sfidando ogni tempesta, con la forza del suo Spirito.
La data di oggi ci porta la memoria di Rashi (Shelomò ben Yitzchak), sapiente d’Israele.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Geremia, cap.30, 1-2.12-15. 18-22; Salmo 102; Vangelo di Matteo, cap.14, 22-36.
La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali del Continente africano.
Non avendo al momento sottomano citazioni di Rashi, abbiamo pensato di attingere comunque a qualche testo del mondo ebraico. La parasha (porzione) settimanale della Torah, letta in questi giorni nelle sinagoghe ha come titolo Re’eh (Vedete), dalla parola che l’apre (Dt 11,26 – 16,17). Il rabbino Pinchas H. Peli, nel suo libro La Torah oggi (Marietti), che raccoglie i commenti alle parashot di tutto un anno, pone in rilievo in questa l’aspetto del dare e, soprattutto, del come dare. Ci è sembrato un buon insegnamento e ve lo proponiamo, nel congedarci, come nostro
PENSIERO DEL GIORNO
La scelta che i rabbini hanno fatto del termine sedaqah per definire l’aiuto che si dà ai poveri non è stata casuale; aiutare i poveri non è infatti un gesto di bontà da parte del donatore, ma un dovere. Quando fa la carità, chi dona si comporta semplicemente con rettitudine: compie un atto di giustizia. E così, non meno importante dell’atto del dare è “l’arte del donare”. La Torah ci ammonisce: “Non essere dunque maldisposto… e non deve rattristarsi il tuo cuore quando dai” (Dt 15, 10). Quando apriamo la mano per soccorrere i bisognosi non dobbiamo sciupare il nostro gesto costringendoli a muoversi in un dedalo di comitati e organizzazioni, di assistenti sociali e burocrati, che a volte dimenticano che il loro compito è quello di offrire aiuto e alleviare dolori. Da noi la Torah si aspetta che impariamo a dare “con un sorriso”, senza che, mentre diamo, ci mostriamo afflitti e ci lamentiamo di eventuali difficoltà finanziarie o di altro. Maimonide (1135-1204), il grande codificatore della Legge ebraica, stabilisce questo principio con chiarezza: “Chiunque chiude gli occhi alla carità è sacrilego, come chi adora gli idoli… chiunque fa l’elemosina al povero con mala grazia e con gli occhi abbassati , anche se regala mille pezzi d’oro, vanifica tutto il merito della sua azione; si deve invece dare con gentilezza, con animo lieto, mostrando simpatia per il povero che si trova nel bisogno”. […] I saggi del Talmud (Baha Batra 9a) consideravano la “carità pari a tutti gli altri precetti messi insieme” e Maimonide, nel XII secolo, dopo aver esposto dettagliatamente tutti i precetti riguardanti la sedaqah, afferma che “non abbiamo mai visto o sentito parlare di una comunità ebraica senza una cassa per la carità”.(Pinchas H. Peli, La Torah oggi).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.