Carissimi,
“Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza” (Mt 11, 25-26). Abbiamo già visto come le opere di Gesù sono oggetto di fraintendimento, di dubbio, di rifiuto. Nel brano evangelico di oggi, Gesù ci addita chi, invece, è in grado di “conoscerne” al meglio il senso e la natura. Ed è, così, in grado di accettare e accogliere Lui: i piccoli. Luca situa questa preghiera di Gesù in un altro contesto e la riferisce più esplicitamente ai discepoli (Lc 10, 17-22). Matteo non definisce chi siano questi piccoli, ma è facile capirlo dal brano che fa seguire immediatamente e che noi leggeremo domani: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi… prendete il mio giogo sopra di voi e troverete ristoro. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11, 28-30). La Bibbia insegnava che è la conoscenza della Parola di Dio, cioè, concretamente, lo studio e la pratica (il “giogo”) della Legge e dei suoi precetti, che può fare l’uomo felice. Chi se ne distanzi volontariamente (attraverso il peccato) o ne sia tenuto lontano per una qualche situazione esistenziale o per la sua condizione sociale, temporanea o cronica (come una malattia, determinati mestieri o altro), è un povero sfortunato, da commiserare. È questo ciò cui sembra alludere, in più di un caso, l’idea di “impurità rituale”. Eppure, al centro di quella Parola che siamo invitati a studiare e approfondire, c’è un evento che dice che Dio si volge, si dà a conoscere al povero come Colui che ne prende le parti, prima ancora di avergli dato qualche precetto da praticare. Si tratta quindi di un povero nella sua “impurità”, nella sua irrilevanza, che chiede (o forse, semplicemente, ha bisogno) di tornare a contare, di essere recuperato alla sfera della libertà e, perciò, della responsabilità. Gesù vuol dunque ricordarci che c’è una rivelazione previa, originale, immediata, che ha per destinatari i poveri, gli ultimi, gli esclusi, gli oppressi, chi non sa niente di Dio, ma lo ha già incontrato in un gesto di dedizione, di conforto, di liberazione. E ci ricorda, perciò, anche che noi, come suoi discepoli, sua chiesa, dovremmo essere la memoria vivente di quell’evento, e in tal modo profezia di una società nuova, dove non è tanto la conoscenza che conta e che costruisce la scala dei valori e delle priorità (io so di più, valgo di più, merito di più), ma l’attenzione e la preoccupazione per le necessità dell’altro (tu sei più piccolo, vali di più, meriti di più). Con l’effetto di riempire i troppi fossati, a prima vista incolmabili, che ancora ci separano. E moltiplicando l’esperienza di Dio nella vita degli uomini, che libera amore, favorisce liberazione, propizia l’assunzione di responsabilità, nonché il compimento di quei precetti, che ne sono il segno. Ogni volta di nuovo.
Il nostro calendario ecumenico ci propone oggi le memorie di Nersēs di Lambron, pastore e testimone di ecumenismo, e di Ahmad al-Alawi, mistico islamico.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da :
Profezia di Isaia, cap.10, 5-7. 13-16; Salmo 94; Vangelo di Matteo, cap.11, 25-27.
La preghiera del mercoledì è in comunione con tutti gli operatori di pace, quale che ne sia il cammino spirituale o la filosofia di vita.
Noi, la verità dell’annuncio odierno del Vangelo, l’abbiamo una volta di più sperimentata, oggi, con il pellegrinaggio che, come ogni anno, di questi tempi, ci porta, con il gruppo di Fé e Luz e con Dom Eugenio, al Santuario del Divino Pai Eterno, a Trindade, e poi a Goiânia, per un pomeriggio al Luna Park. Un’occasione per affinare il linguaggio, la comunicazione, la comprensione reciproca, la comunione.
È tutto. Noi ci si congeda qui. Già, l’anno scorso, in questa data, vi avevamo offerto in lettura un brano del discorso, che Nersēs di Lambron tenne al Sinodo di Hromklay nel 1179, con l’intento di favorire la ricerca dell’unità tra armeni e ortodossi. Ve ne proponiamo ora un altro, che ci pare disegni bene le relazioni che spesso ancor oggi le Chiese intrattengono tra loro. È tratto da “Il primato della carità” (Qiqajon). Ed è, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Ecco: noi siamo diventati nemici gli uni degli altri, non secondo il corpo, ma secondo lo spirito. Ci siamo odiati a vicenda, non per defraudarci gli uni gli altri, ma illudendo noi stessi di amare Dio. Abbiamo fatto di colui che fu l’occasione della nostra pace, Cristo, la causa della nostra reciproca opposizione. Ci siamo dichiarati suoi discepoli, non con l’amarci a vicenda, bensì con l’odiarci. Come fondamento della nostra sapienza abbiamo posto non il sacrificio di riconciliazione con il Padre, ma l’invidia seminata da Caino. Custodiamo, nei nostri rapporti vicendevoli, la familiarità e la cordialità carnali, e poi rifiutiamo la condivisione spirituale. Comunichiamo insieme al mangiare e bere materiali, e poi ci asteniamo dall’altare di Cristo. Accorriamo con piacere, noi cristiani di nazioni diverse, nelle case degli amici, e nelle case di Dio che sono le chiese di nazioni diverse, ugualmente cristiane ci rechiamo malvolentieri. Nelle nostre conversazioni ci facciamo fiducia a vicenda, sulla parola, e nella fede divina ci sfidiamo gli uni gli altri. Ci diamo tutti allo stesso modo il nome di cristiani e facciamo la medesima strada, ma poi, perdendo il senno, abbiamo paura di camminare insieme. Per la nostra ostinata inimicizia noi commettiamo peccati che conducono alla morte, poiché ci siamo sottratti al comando che ci insegna a ottenere il perdono perdonando; infatti non solo si bestemmia lo Spirito santo, ma una chiesa insulta un’altra chiesa, abbiamo abbandonato la carità che è il primo dei comandamenti e abbiamo aderito all’inimicizia facendoci inventori di ogni male. (Nerses di Lambron, Il primato della carità).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.