Carissimi,
“Un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna? Gesù gli disse: Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi? Costui rispose: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso. Gli disse: Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai” (Lc 10, 25-28). Noi non saremo mai troppo riconoscenti a quel dottore della Legge per non essersi accontentato della breve replica di Gesù. Ma di aver, invece, insistito con quel suo: “Ma chi è il mio prossimo?”. Che ha permesso a Gesù di regalarci la parabola che fa: Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico. Perché ad amare, a parole, siamo tutti capaci. Anche se, a dire il vero, dentro di noi, non ne siamo sempre convinti. E se solo cominciamo a passare in rassegna mentalmente, tra i nostri conoscenti, le persone che, non necessariamente odiamo, ma ci sono indifferenti, ci accorgiamo che non finiremmo più, ed è perciò meglio dedicarci a enumerare coloro che per davvero amiamo. E sono, in genere, pochi. E li amiamo male. Persino noi, del resto, ci amiamo male. Forse proprio perché non riusciamo a sporgerci sull’altro, ma ce ne stiamo ripiegati su noi stessi, anche quando crediamo o lasciamo credere di interessarci agli altri. E Dio non è così, perché è Trinità, cioè sguardo posato sull’altro, dono di uno all’altro e all’altro ancora. E noi, che siamo a sua immagine, non possiamo che essere come Lui. E finché non lo siamo, saremo inevitabilmente tristi. O solo un po’ grossolanamente allegri. Però, giovedì sera, a casa di Nara e Lazinho e dei loro figli, William e Dayane, guardandoci intorno, nella sala piena come un uovo, dopo aver ascoltato questo Vangelo, ne vedevamo, sì, ne vedevamo di volti di samaritani e samaritane, di cui sapremmo raccontare le storie, la loro capacità di fermarsi, tralasciare impegni, dimenticare torti, offese e pregiudizi, prendersi cura, fasciare ferite. E lì, dire niente. Come fosse tutto normale. Come deve aver fatto quel samaritano, tornando a casa. Lui, a giudizio dei più, così lontano da Dio. Eppure così vicino. Da confondersi con Lui. Sì, buon Dio, cura le ferite del nostro egoismo, di noi che viviamo come tramortiti ai margini del sistema, che saccheggia il mondo. Fa’, che, curati, sappiamo farci carico delle piaghe altrui. Essere cuore e mani del Dio Samaritano che cura il Dio ferito, moribondo. Ai bordi delle nostre strade.
I testi che la liturgia di questa XV Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro del Deuteronomio, cap.30, 10-14; Salmo 69; Lettera ai Colossensi, cap.1, 15-20; Vangelo di Luca, cap.10, 25-37.
La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.
La Chiesa ricorda oggi Benedetto da Norcia, padre del monachesimo occidentale, nonché patrono della vostra povera Europa. Il martirologio latinoamericano ci ricorda anche Mons. Carlos Horacio Ponce de Léon, pastore e martire in Argentina.
Oggi si sono chiusi anche i Mondiali di Calcio, che, a dire il vero, dopo l’uscita del Brasile, avevavmo trascurato un po’. Non senza far mancare da lontano il nostro personalissimo tifo a squadre immancabilmente eliminate una dopo l’altra. Salvo l’ultima, la selezione dei cugini spagnoli, approdata meritatissimamente al suo primo titolo. Noi ci rifaremo la prossima volta, in casa. E, dato che di calcio si parla, col calcio ci lasciamo, proponendovi un articolo di Padre Bertrand Cherrier, direttore del Progetto Penalty, in Francia. Ha per titolo “Le jeu, un chemin possible vers la foi ?” e lo prendiamo dal sito Church on the ball della Chiesa cattolica sudafricana. È, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
La pratica del calcio non è semplicemente l’organizzazione di una gara in cui uno vince e l’altro perde. Se i giovani amano il calcio è, in primo luogo, perché questo sport è un mezzo per comunicare ed esprimere, che permette di apprendere qualcosa sulla vita e sulle relazioni tra gli uomini. Come ha detto così bene lo scrittore francese Albert Camus: “Tutto ciò che so sulla morale e sui doveri degli uomini, lo devo al calcio”. A dispetto delle molte critiche, bisogna constatare che il calcio non è così inutile come lascia apparire. È uno strumento pedagogico, che senza fare economia di regole vincolanti (non usare le mani!), apre alla creatività, alla comunione e all’assunzione di responsabilità. In questo, la pratica del calcio è un “luogo”, tra gli altri, per testimoniare la propria fede e il proprio impegno nella sequela di Cristo. In una corsa al successo e alla vittoria, la sfida del cristiano sarà quella di fare in modo che il “fine” non giustifichi i “mezzi” e che lo spirito del gioco (gratuito, libero, allegro, rispettoso, solidale…) non si lasci deteriorare da una gloria effimera e da allori che svaniscono… Il gioco, come anche la fede, non è una necessità, è oggetto di un’adesione libera e di un desiderio di partecipare, con allegria, a un momento di incontro e di condivisione. Nel caso del gioco, sarà lo spazio di un momento. Nel caso della fede, sarà lo spazio di una vita. Nel gioco come nella fede, basta “osare un sì”, che porta a una “vita in abbondanza”, che supera tutte le nostre speranze. Questa è la sorpresa del gioco… e della fede! Io prego perché la coppa del mondo offra questa testimonianza di fraternità e di amicizia tra i popoli. Che questa esperienza ci interpelli sull’amore del Creatore per la sua creazione. (Père Bertrand Cherrier, Le jeu, un chemin possible vers la foi ?).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.