Carissimi,
“Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro” (Lc 15, 1-2). Che Gesù, e perciò Dio, volesse bene agli uni e agli altri, lo dice la parabola dei due figli, o del Padre misericordioso (Lc 15, 11-32), che ci ha proposto la liturgia di oggi. A volerlo, potremmo anche chiamarla la parabola della delusione di Dio. Che resta sostanzialmente incompreso dagli uni e dagli altri: dai peccatori (ed è in qualche modo comprensibile) e dai religiosi (ed è, umanamente parlando, piuttosto triste e deprimente). Sia il figlio che sceglie di andarsene di casa, che quello che vi resta, non conoscono il Padre, che identrificano invece come padrone. Ma, tra i due, il meglio è ancora il primo, che lo rifiuta espressamente, nega perciò il baal in cui spesso le religioni travestono Dio. Anche se questo non gli eviterà di finire asservito ad altri idoli, che lo ridurranno in miseria. L’altro, il fratello che si considera buono, quello tutto casa, lavoro e chiesa, è peggio del discolo, perché, per quel che si ricava dal racconto, se n’è rimasto in casa solo per una qualche forma di interesse (forse, anticipazione di una qualche teologia della prosperità!) ed è comunque incapace del sentire di Dio (come spesso lo siamo noi, chiesa del suo Figliolo). Gli è che il discolo, se pure torna a casa mosso solo dalla fame e dal bisogno, ha modo di scoprire finalmente il Padre (e allora ben venga il peccato che lo aveva da lui allontanato!), il religioso invece, che gli era stato sempre vicino, o almeno così aveva creduto, ne è infinitamente distante. Sicché il padre (con pazienza e, immaginiamo, con quanto dolore!), deve uscire, farglisi incontro e “supplicarlo” di entrare a fare festa con lui, per il figlio e il fratello ritrovato. Noi, in quale Padre crediamo? Quale Dio annunciamo nel comportamento con i nostri fratelli che se ne sono allontanati o non l’hanno mai conosciuto?
Due sono le figure che ricordiamo oggi: Martin Niemoeller, pastore della Chiesa Confessante, e Jean-Pierre de Caussade, mistico e maestro spirituale.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Michea, cap.7, 14-15. 18-20; Salmo 103; Vangelo di Luca, cap.15, 1-3.11-32.
La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.
Noi si vorrebbe generalmente essere molto meglio di quel che si è, anche per poterci ogni tanto vantare di qualcosa. Ma non c’è verso. Dio, da quel burlone che è, ci gioca ogni tanto anche questi scherzi. E, dice Jean-Pierre de Caussade, in questa lettera tratta dalle sue “Lettres Spirituelles” (Desclée de Brouwer), vale la pena di far buon viso a cattiva sorte. Tutto alla fine si risolve a nostro vantaggio. Beh, è questo, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Bisogna sottomettersi a Dio in tutto e per tutto, per lo stato e la condizione in cui ci ha posti, per i beni e per i mali che ci ha dispensati ed anche per il carattere, lo spirito, la natura, il temperamento, le inclinazioni di cui ci ha dotati. Esèrcitati dunque nella pazienza con te stessa e a questa perfetta sottomissione alla volontà divina. Quando l’avrai acquisita, godrai di una grande pace, senza più lamentarti di nulla o risentirti contro te stessa, ma sopportandoti con la stessa dolcezza che devi usare con gli altri. Questa disposizione è più importante di quanto tu possa pensare; e, in questo momento, non c’è forse nulla di più essenziale per la tua santificazione. Abbila perciò sempre davanti agli occhi, e compi degli atti frequenti di sotttomissione alla santa volontà di Dio, di carità, di sopportazione, di dolcezza, per te stessa più ancora che per gli altri. Tu non ci arriverai senza farti una grande violenza. Un’anima a cui Dio fa conoscere le proprie miserie è assai più di peso a se stessa di quanto non potrebbe esserle chiunque altro: perché costui, per quanto vicino sia, non è mai costantemente con noi; e, in ogni caso, non è in noi; mentre noi portiamo noi stessi senza sosta, senza poterci lasciare un solo istante, né smettere completamente di vederci, di sentirci e di trasportare ovunque con noi i nostri difetti e e le nostre imperfezioni. Ma ecco dove risplende soprattutto l’infinita bontà del nostro Dio: gli è che il dolore e la vergogna che ci causano i nostri difetti, ne costituiscono anche il rimedio, a condizione, tuttavia, che questa vergogna non si tramuti in dispetto, e che questo dolore ci sia ispirato dall’amore di Dio e non dall’amor proprio. Il dolore che nasce dall’amor proprio è pieno di turbamento e di acredine; e, lungi dal guarire le piaghe della nostra anima, non serve che ad esacerbarle. Al contrario, il dolore prodotto dall’amore di Dio è calmo e pieno d’abbandono. Se detesta la colpa, si compiace però dell’umiliazione che segue la colpa, così che ha come risultato di dare all’umiliazione tutto il suo merito e di trasformare le stesse perdite in occasione di guadagno. (Jean-Pierre de Caussade, Lettres Spirituelles).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.