Carissimi,
“Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme” (Lc 9, 28-31). Questo Vangelo della trasfigurazione, noi lo si è meditato ieri pomeriggio con gli amici e amiche di Fé e Luz e, poi, nella tarda mattinata di oggi con i ragazzi della chácara di recupero, alla chiusura del loro ritiro con padre Haroldo. E, in relazione all’esperienza degli uni e degli altri, sono due gli aspetti del racconto lucano che ci hanno colpito di più, uno che si riferisce a Gesù, l’altro ai discepoli. L’esodo di Gesù “che stava per compiersi a Gerusalemme” sarà l’evento in cui egli sperimenterà l’estrema esclusione dal convivio umano, nella sua dimensione civile, ma anche, drammaticamente, in quella religiosa. È come se, in Lui, Dio si rendesse conto che non poteva più limitarsi a “fare il bene”, come aveva fatto fino ad allora, ma aveva bisogno di dirsi e di darsi nella forma della totale identificazione con gli ultimi, gli emarginati, gli scomunicati, i maledetti. È allora lo stesso Dio che, in Gesù, perché non si abbia più alcun dubbio nel determinare da che parte stia, diventa colui di cui il profeta Isaia affermava: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima” (Is 53, 2-3). Eppure, è proprio questo servo sofferente che il Vangelo di oggi presenta come splendente. Ora, la trasfigurazione, noi crediamo si debba intenderla, in primo luogo, come un evento della fede, anzi, l’evento decisivo della fede. Per un momento, i tre discepoli riescono a scorgere in quell’omino di Nazareth, che un giorno, senza capire ancora bene il perché, si sono decisi a seguire, il Figlio di Dio. È l’esperienza che siamo chiamati a fare anche noi. Finché non riusciremo a scorgere nelle sembianze ferite dei nostri fratelli di cui il mondo riesce solo a distinguere l’handicap mentale o fisico o le spesso inevitabili conseguenze di un’esistenza sbagliata, la presenza luminosa del Figlio di Dio, non sapremo ancora cos’è la fede nel Dio cristiano. E, ugualmente, anche se con altre parole, finché non riusciremo ad udire, pronunciato prima che su ogni altro, su ciascuno di essi la parola del Padre: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo”, non saremo davvero ancora convertiti al cammino di Gesù. Conversione è convertirci all’essere e all’agire di Dio; anzi convertirci alla sua conversione. Quella ai poveri, registrata nella Bibbia una volta per tutte: Ho visto la miseria del mio popolo, ho udito il suo grido. E ho deciso di liberarlo. Se Dio, prima, era o significava qualcosa d’altro, da allora non più. È solo ascolto. E liberazione. Noi siamo chiamati a porci in ascolto di ciò che ci chiedono e ci dicono – dandoci tempo nel caso per decifrare quelli che a volte sono solo suoni inarticolati – i nostri fratelli e sorelle, solo per il mondo, minori: per Lui, invece, figli, gli eletti. I prediletti. Ciò che anche noi potremo diventare, ma solo in seconda battuta. Dopo aver fatto qualcosa per liberarli, dando loro il nostro amore.
I testi che la liturgia di questa 2ª Domenica di Quaresima propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Genesi, cap. 15, 5-12. 17-18; Salmo 27; Lettera ai Filippesi, cap.3, 17–4, 1; Vangelo di Luca, cap.9, 28b-36.
La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le Chiese e comunità cristiane.
Oggi il calendario ci porta la memoria di uno dei grandi riformatori della Chiesa, Martin Bucero, testimone di pace e dialogo.
Con ieri sera, al termine di una giornata di digiuno – il digiuno di Ester – i nostri fratelli ebrei sono entrati nella festa di Purim, che si prolungherà fino a domani.
Ancora non sappiamo con certezza il numero delle vittime del violentissimo terremoto che ha colpito, ieri, il Cile. Presumibilmente saranno assai meno di quello che ha sconvolto Haiti il mese scorso. Ma, una volta di più, ci sarà bisogno di azionare i meccanismi della solidarietà internazionale, a cui tutti siamo chiamati a dare il nostro contributo. Assieme alla nostra preghiera.
Per stasera è tutto. Prendendo spunto dall’odierna festività ebraica, noi ci congediamo offrendovi in lettura un testo di Donato Grosser dal titolo “Lo spirito di Purim”. Lo troviamo nel sito di Torah it. Ed è per, oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Purim si differenzia da tutte le altre feste per le mizvoth di dare regali ai poveri e di inviare vettovaglie ai propri amici. […] Qual’è l’origine di queste due mizvot di Purim? Per cercare una risposta, pensiamo prima di tutto a quella che era la situazione degli ebrei di Persia durante il periodo in cui si trovavano sotto la spada di Damocle del decreto di Haman. Il decreto era quello di sterminare tutti gli ebrei, dai poppanti nelle culle, uomini e donne, fino ai vecchi nelle case di riposo, senza alcuna eccezione. Davanti a un decreto firmato dal Re e ufficialmente non revocabile, gli ebrei si videro già morti. Se non fosse stato per l’intercessione di Ester che riuscì a convincere il Re a fare una seconda lettera reale per permettere agli ebrei di difendersi, il decreto sarebbe stato eseguito. Dopo la grande paura del decreto di Haman, arrivò la seconda lettera del Re, e il 13 e 14 di Adar gli ebrei esercitarono il diritto di legittima difesa e si salvarono. Ritrovatisi vivi e salvi, nel giorno di Purim gli ebrei pensarono alla grandezza del miracolo che era loro capitato e si pentirono delle piccole beghe e dei litigi di cui si erano occupati fino a poco prima. Dopo aver quasi visto la morte in faccia, si resero conto della bassezza di litigare con il prossimo per cose di poco conto. Questi pensieri generarono un’esplosione spontanea di amore verso il prossimo che si manifestò nel portare vettovaglie agli amici perché potessero festeggiare e regali ai poveri – anche quelli che fino a ieri erano stati sospettati di essere degli imbroglioni. Dopo questa manifestazione di amore fraterno, i Maestri quando decisero di far commemorare il miracolo di Purim negli anni successivi, dissero: “Vi ricordate l’esplosione spontanea di amore fraterno quando già pensavate di essere tutti morti? Quel comportamento vogliamo che lo ripetiate di anno in anno per ricordare il miracolo di Purim.” (Donato Grosser, Lo spirito di Purim).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.