Carissimi,
“Il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; e subito germogliò perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò” (Mc 4, 3-5). Queste parabole di ambientazione bucolica fanno la gioia della nostra dona Dominga, a cui piace questo identificarsi di Dio e della sua azione con la gente e il lavoro dei campi. Che è ancora oggi , quando se lo può concedere, il lavoro di dona Dominga. Dunque, Dio, o forse più propriamente, il suo Spirito, esce a seminare. E cosa può seminare se non la sua propria Parola, cioè il Figlio? Ma come può accadere che il Figlio (che è poi il Regno, cioè, la manifestazione della regalità del Padre) non si proponga all’umanità con successo? La parabola intende rispondere a questo interrogativo, che riguarda ciò che Gesù comincia a sperimentare in questo suo aprirsi alla missione. Che strano, dev’essersi detto, com’è che non tutti, anzi piuttosto pochi, si appassionano e si lasciano conquistare da Dio? Già, dipende da noi, dal terreno che noi siamo: di volta in volta, il bordo di una strada, terreno pietroso o pieno di rovi, o, infine, terra buona, fertile, nera, di quella che il seme, appena vi penetra, subito esplode in nuova vita. Il Vangelo di oggi ci presenta dunque questa parabola di Gesù e Marco ce ne offre subito dopo la spiegazione maturata nella sua comunità (Mc 4, 14-20). Forse, ciò che importa ricordare oggi è il fatto che noi siamo responsabili della maggiore o minore fecondità della Parola del Regno, cioè del suo accadere nella nostra storia. Noi, ce lo siamo detti altre volte, siamo fatti responsabili di Dio, della sua sopravvivenza, del suo impiantarsi e crescere, nei nostri ambienti, famiglie, case, posti di lavoro, chiese. Per garantire la quale, noi, almeno noi, dobbiamo darci da fare per rimuovere ostacoli e impedimenti, tutto ciò che, prima di tutto in noi stessi, nei nostri atteggiamenti, possa far ombra, oscurare, rendere ambigua, non credibile la Parola che, seminata in noi, a nostra volta, seminiamo, cioè proclamiamo, intorno a noi.
Il calendario ci porta oggi la memoria di Angela Merici, fondatrice della Compagnia di sant’Orsola.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
2° Libro di Samuele, cap.7, 4-17; Salmo 89; Vangelo di Marco, cap.4, 1-20.
La preghiera del mercoledì è in comunione con quanti, anche fuori da strutture religiose tradizionali, lavorano per costruire un mondo di fraternità, di giustizia e di pace.
E lasciamoci qui, con la testimonianza di una protagonista di quella tragica stagione: Liana Millu. La troviamo in “Chi è come te fra i muti? L’uomo di fronte al silenzio di Dio, lezioni promosse e coordinate da Carlo Maria Martini,” (Garzanti). Ed è, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Venne il funesto 1938, con le leggi razziali; poi la guerra e, con la guerra, uno spartiacque che da solo determina un “prima” e un “poi”: venne Auschwitz. Ricordo che in una scuola un ragazzetto mi chiese: Se potesse tornare indietro, che cosa farebbe pur di non finire laggiù? Gli risposi che non avrei fatto nulla. Lui però insistette: Perché non farebbe niente? Mi mise in imbarazzo, dal momento che era complicato rispondergli. Di fatto, nel 1943, non feci proprio nulla per mimetizzarmi o per nascondermi. Entrare nella Resistenza non era proprio il modo più adatto per sfuggire ai pericoli. Ma non sapevo che cosa fosse Auschwitz, anzi non sapevo nemmeno che esistesse. Tornando alla domanda del ragazzino, mi chiedo: E ora che so? Ora che so, credo che non vorrei mai rinunciare a quella esperienza suprema, esperienza della convivenza con la morte, esperienza delle reazioni che la convivenza con la morte produce in noi stessi e negli altri; esperienza di quello che è e che può diventare l’uomo; esperienza della necessità della fede, di credere in qualcosa. Dicendo “fede”, intendo sia la fede religiosa sia la fede laica sia la fede politica. Come dice il Levitico: “Se è testimone perché ha visto e sentito qualcosa e non lo riferisce, colui porti il peso del suo peccato” (Lv 5,1). Non mi gravo di questo peccato; piuttosto, siccome racconto sempre, ogni volta che mi capita di parlare, la mia testimonianza, insisto sul fatto che dove c’è una forza potente e brutale, tesa senza requie a distruggere l’essere umano – badiamo bene, nell’animo prima ancora che nel corpo -, dove c’è una simile forza, l’unico modo per resistervi rimanendo umani è avere una controforza, è difendersi con l’armatura morale di una fede. (Liana Millu in Chi è come te fra i muti?).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.