Carissimi,
“Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!” (Mc 2, 27). Quello che è presentato qui come conflitto “con” i farisei, era in realtà, e da tempo, un dibattito “tra” farisei, più seri e severi alcuni, più discoli, proprio come Gesù, altri. E i testi della Mishna stanno lì a dimostrarlo. Qui, comunque, l’intento dell’evangelista è chiaro: più che raccontare un episodio del passato, vuole allertare la sua comunità (e ogni comunità a venire) circa comportamenti che si vanno affermando o che potrebbero prendervi piede. Il Sabato, per gli ebrei, era ed è, crediamo, la cosa più bella inventata da Dio per l’allegria sua e dei suoi figli. Come quando un papà o una mamma se ne sta semplicemente lì a mangiarsi con gli occhi la sua creatura. E, a questa, non sembra vero di aver lì, l’uno o l’altra, tutto(a) per lei. Poi, però, gli uomini sono maestri a rovinare anche le cose più belle e così hanno trasformato il Sabato in una legge. Triste, puntigliosa, monotona, come ogni legge. E pensare che, per Lui, persino la Legge – almeno la Sua – doveva essere niente più (e niente meno) che un insegnamento dettato dall’amore e vissuto come tale. Stamattina, noi ci si chiedeva che cosa potrebbe essere per noi l’equivalente del Sabato, di cui si parla qui nel Vangelo. E qualcuno ha suggerito: beh, la domenica, o l’Eucaristia, o qualcuno dei sacramenti. Già, pensate alla cosa bella che dovrebbero essere i sacramenti. E la cosa brutta che li abbiamo fatti diventare. E si diceva del sacramento della riconciliazione, per menzionarne uno. Dovrebbe significare il ritornare sui propri passi di chi si è accorto di aver smarrito la casa. “Padre, ho perso la rotta”. E l’altro: “Beh, cerchiamola di nuovo, insieme!”. Oppure: “Signore, ti ho tradito!” E l’altro, fatto voce di Dio: “Non importa, ora sei qui di nuovo”. Immaginiamo come si sarebbe comportato il Padre del Figlio prodigo, se si fosse servito di certi manuali per la confessione (che non sappiamo se esistano per davvero, ma sospettiamo di sì, data la quasi generale mancanza di fantasia che ne caratterizza la celebrazione). Arriva, dunque, il figlio, che gli fa: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te…” e Lui: “D’accordo, figlio, ma, quante volte, dove, come, quando, con chi? e poi dimmi: sei davvero pentito?”. E, invece, al Signore della parabola, che è Dio, nulla può interessare di meno che l’accusa dettagliata dei trascorsi del figlio, né si preoccupa che il figlio sia davvero pentito. Difatti non lo è mica tanto, ha solo fame e si sente solo… Questo a Dio basta per fare festa. Parlano di crisi della confessione e meno male! La confessione dovrebbe essere una serata di danza e, lasciatecelo dire, di sbornia. Metaforica, certo, ma sempre sbornia. Per l’avvenuta [ri]scoperta di Dio. O, se preferiamo, per l’amico ritrovato. Confessione non tanto del peccato, quanto dell’amore del Padre. Già, tristezza del Sabato allora, tristezza dei sacramenti, oggi. Quando quello e questi dovrebbero essere fatti per l’uomo e la sua allegria. Perché solo così anche Dio può essere allegro. Se no, come minimo, gli viene da piangere.
Oggi per noi è memoria di Teofane il Recluso, monaco e pastore.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
1° Libro di Samuele, cap. 16, 1-13; Salmo 89; Vangelo di Marco, cap.2, 23-28.
La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali dell’Africa Nera.
È tutto. Noi ci congediamo qui, lasciandovi a una citazione di Teofane il Recluso, tratta da “I frutti della Preghiera del cuore”, che troviamo nel sito Esicasmo.it. È che è, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
In risposta alla sua domanda, a volte viene concessa all’uomo la preghiera che viene dalla grazia, assieme ad un po’ di quiete e alla gioia nello spirito; questo può capitare anche se l’uomo nella sua miseria spirituale si è sforzato di pregare unicamente con questo scopo in vista, senza aver raggiunto la dolcezza, l’umiltà e l’amore e senza adempiere gli altri comandamenti del Signore. Il suo carattere rimane però quello che era prima: non ha dolcezza perché non ha fatto nessun sforzo per ottenerla e non si è preparato a riceverla; non ha umiltà perché non l’ha chiesta e non si è sforzato di essere umile; non ha amore per gli uomini perché non se ne è preoccupato e non ha pregato ardentemente perché gli fosse concesso. Chiunque infatti costringa e forzi se stesso a pregare, anche contro il desiderio del proprio cuore, deve anche forzare se stesso ad amare, ad essere umile, mite, innocente e generoso. Deve inoltre sottovalutare se stesso, considerandosi il più misero e il più indegno di tutti, deve evitare i discorsi oziosi e meditare sempre sulle parole del Signore, conservandole sulle labbra e nel cuore. Deve inoltre sforzarsi di evitare l’ira e i discorsi pieni di collera, come sta scritto: « Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza, con ogni sorta di malignità » (Ef 4,21). In risposta a questi sforzi il Signore, che vede l’ardore e la fermezza dell’uomo, gli concederà il potere di compiere senza fatica né coercizione tutte quelle cose che prima trovava così difficile osservare, nonostante i suoi sforzi immani, a causa del peccato che dimorava in lui. Tutte queste pratiche di virtù diventeranno come una seconda natura in lui, perché alla fine il Signore verrà e dimorerà in lui, ed egli nel Signore: il Signore stesso adempierà in lui senza sforzo i propri comandamenti, colmandolo con il frutto dello Spirito. (Teofane il Recluso, I frutti della preghiera del cuore).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.