Carissimi,
“Mentre tutti erano sbalorditi per le cose che faceva, Gesù disse ai suoi discepoli: Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini. Essi però non capivano queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso, e avevano timore di interrogarlo su questo argomento” (Lc 9, 43b-45). Nelle mani degli uomini, nelle nostre mani. Se non capiamo questo, non avremo compreso nulla del mistero di Cristo. Lui resterà un messia (vero o falso, a questo punto, importa poco) rifiutato, o addirittura mandato a morte, se non da tutto il popolo ebreo, come piaceva a Lefebvre e ai suoi emuli o nostalgici (su questo tema specifico se ne trova negli ambiti più disparati), possibilmente da qualche autorità giudaica – che, a dire il vero, anche volendolo, non avrebbe potuto condannare a morte nessuno (ma è sempre bene dirottare su altri le colpe dei padri, prima che giungano, un giorno o l’altro, a incriminare noi, l’Occidente divenuto poi “cristiano” di deicidio. Il che sarebbe, del resto, assai più realistico, anche per il presente). No, il Vangelo, Gesù, non ci sta a questa versione di comodo. Lui, la verità di Dio, sarà consegnato nelle mani degli uomini. Il suo destino sarà deciso, ogni volta, in ogni tempo e luogo, da noi. Sempre che davvero si creda che Lui è il figlio di Dio. E non un figlio dei fiori o un romantico rivoluzionario nella Palestina del primo secolo.
La comunità fa oggi memoria di Cosma e Damiano, medici e martiri del 3° secolo, nonché dei Martiri di Timor Est.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Zaccaria, cap.2, 5-9. 14-15a; Ger 31, 10-13; Vangelo di Luca, cap.9, 43b-45.
La preghiera del sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.
La memoria dei due santi medici “a gratis”, Cosma e Damiano, ci suggerisce di proporvi in chiusura una riflessione sul tema della sofferenza, con cui la categoria dei medici ma soprattutto quella dei loro pazienti si trova ogni volta a confrontarsi. Scegliamo di farlo con le parole di padre Yves de Montcheuil, teologo del secolo scorso, cappellano delle formazioni partigiane nella resistenza al nazismo, fucilato per questo, in Francia, dalle truppe tedesche d’occupazione durante la Seconda Guerra Mondiale. Di cui quanti ci seguono sanno che noi facciamo memoria il 10 agosto. La riflessione è svolta a partire dall’evento di Cristo, e il brano è tratto dal suo libro “Leçon sur le Christ”, (Édition de l’Épi). È questo per oggi il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
La sofferenza non è segno dell’abbandono di Dio. Essa non è, come gli spiriti non ancora sufficientemente illuminati dell’Antico Testamento hanno creduto, segno che Dio abbandona chi patisce ai suoi nemici. In realtà colui che soffre sulla croce, è colui per il quale il Padre testimoniava: Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi san compiaciuto (Mt. 3, 17). Chi è crocefisso, è colui nel quale Dio si compiace. Chi ha familiarità con la reazione di tante anime dell’Antico Testamento di fronte alla sofferenza – la cui eco risuona lungo tutto lo svolgersi della Bibbia – dovrebbe cogliere la trasformazione avvenuta. Il senso della sofferenza è mutato, non tanto per dichiarazioni o teorie nuove, quanto per l’atto stesso di Cristo e per la sua particolare posizione. Colui che soffre può ad ogni istante ripetere quella che fu l’ultima espressione di Cristo sulla croce: Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito! (Lc. 23, 46). Egli può essere consegnato al tormento dell’abbandono sensibile: la fede gli darà la certezza che perfino nelle tenebre, volendolo, egli si trova nelle mani di un Padre che lo ama. Egli non è lontano da Dio; al contrario, è a lui vicino più di quanto non sia prossimo a tutto ciò che lo opprime. […] Ora, il fatto che il Figlio di Dio ha sofferto, dà forza a questi sentimenti e solidità al nostro abbandono, in quanto ci assicura che, nel momento cruciale della nostra sofferenza, noi siamo avvolti dall’amore di Dio. Infatti, il simbolo della sofferenza, la croce, é nel medesimo tempo il simbolo dell’amore. Essa toccò in sorte a colui che il Padre ama soprattutto. La sofferenza, fisica o morale che sia, (lutto, separazione, insuccesso, delusione…) non è per questo attenuata o assopita. Essa acquista, invece, una qualità ed una risonanza del tutto diverse. Essa viene interiormente trasformata, prende un senso nuovo. (Yves de Montcheuil, Leçon sur le Christ).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.