Carissimi,
“Gesù domandò loro: Ma voi, chi dite che io sia? Pietro rispose: Il Cristo di Dio. Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno. (Lc 9, 20-22). Stamattina si diceva che, se fossimo vissuti al tempo di Gesù, probabilmente anche noi, condizionati (o forse no) da certi politici, dalle gerarchie religiose, dalle teste d’uovo dell’establishment, lo avremmo rifiutato. Pietro ha azzardato a dire quello che ha detto. Anche se poi, l’immagine che aveva in mente di messia, era probabilmente più simile a quella di coloro che anche oggi ritengono tale il potente di turno, il soggetto vincente. Sennò, mica ci gioco più. Questo spiega perché i discepoli, al momento opportuno, se la siano data a gambe. Gesù non presentava un’immagine scontata di Dio e di sé come suo rappresentante. Al contrario. Pochi versetti di una qualche profezia, un salmo qua e là, per la gente comune, erano davvero troppo poca cosa, per ribaltare convinzioni secolari, costruite a partire da altre e più numerose profezie, da altri e più numerosi salmi e sentenze. Dio si gioca anche in questo caso in assoluta debolezza e chi si dispone ad accettarlo, arrischi la sua libertà in quest’avventura ai limiti della pazzia. E gli altri (anche quanti di noi, che a parole, dicono di credere in Gesù il Cristo!), pazienza! Continueranno (continueremo?) a confondere il crocifisso con un gingillo da appenderci al collo o all’orecchio, o con un inutile arredo per le aule scolastiche, i tribunali, persino le chiese. Perché noi continueremo a fare i cavoli nostri. A negare nei fatti il regno di Dio che quel Crocifisso rappresenta: la vita come dono. Per tutti. Anche per i miei nemici.
Oggi facciamo memoria di Rabbi Akivà , maestro in Israele.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Aggeo, cap.1, 15b – 2,9; Salmo 43; Vangelo di Luca, cap.9, 18-22.
La preghiera del venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica che confessano l’unicità del Dio clemente e ricco in misericordia.
“Immenso codice di legge e dottrina, il Talmud – parola che significa “insegnamento” – è da secoli e millenni l’autentico territorio della vita e del pensiero d’Israele. In ebraico esso è chiamato familiarmente yam, “mare” , a segno non soltanto della sua vastità ma soprattutto dell’infinità di direzioni che esso apre a chi vi si rivolge, in un continuo viavai di domande e risposte”. Elie Wiesel in una delle lezioni magistrali pronunciate all’inizio dell’anno 2000 all’Università di Bologna, raccolte nel libro “Sei riflessioni sul Talmud” (Bompiani), ha rivisitato la figura di Rabbi Akivá (o ’Aqiba), così come ci è stata tramandata dal Talmud. Nel congedarci, scegliamo di proporvene un brano come nostro
PENSIERO DEL GIORNO
In generale era un umanista. In quanto tale, si oppose alla pena di morte. “Se facessi parte del Sinedrio” proclamò, “nessuno sarebbe mai condannato a morte”. La corte avrà forse perso un ottimo giudice, ma il Talmud ha guadagnato un ottimo insegnante, per di più coraggioso: fu il primo a liberarsi del testo, vale a dire, di un’interpretazione letterale del testo. Con rabbi ’Aqiba si aprì un’era totalmente nuova del Talmud, soprattutto nel campo delle leggende: con rabbi ’Aqiba il racconto della Legge divenne la Legge stessa. […] Essere insegnante e insegnare erano le sue passioni. Ci volle la morte del figlio per fargli interrompere una lezione con gli studenti. Ascoltate questa storia. Durante una lezione fu interrotto e informato della grave malattia del figlio Shim’on. “Shaalu” disse il maestro, con la tipica espressione di uno studioso, “avanti, fate domande, non distogliamoci dalle nostre questioni”. Arrivò un altro messaggero per annunciare l’aggravarsi delle condizioni di Shi’mon: “Hikhbid, si è aggravato”. Il maestro continuò ad insegnare. Giunse il terzo emissario: “Gosses, Shi’mon è agonizzante”. “Shaalu” mormorò il padre. Giunse l’ultimo messaggero: “Hishlim, tutto si è compiuto”. Soltanto allora rabbi ’Aqiba si tolse i tefillim,si stracciò i vestiti e iniziò a piangere, dicendo: “Finora abbiamo studiato la Torah, adesso dobbiamo onorare un uomo che ha concluso il suo cammino”. Al funerale tenne uno degli elogi più commoventi della letteratura talmudica: “Ascoltatemi, miei confratelli della casa d’Israele, ascoltatemi. Non vi siete riuniti qui per la mia saggezza, perché tra voi ci sono molti più saggi di me, non per la mia salute, perché tra voi ci sono molti più sani di me. Gli uomini del Sud probabilmente conoscono ’Aqiba, ma quelli del Nord, lo conoscono? Siete venuti per onorare la Torah, e questo mi dà conforto”. Glorioso Rabbi ’Aqiba. La morte del figlio, come di qualsiasi altra persona, aveva più significato della sua stessa morte. (Elie Wiesel, Sei riflessioni sul Talmud).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.