Carissimi,
“I sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani mandarono a Gesù alcuni farisei ed erodiani per coglierlo in fallo nel discorso” (Mc 12, 13). Ciò che, in primo luogo, emerge, nel Vangelo d’oggi, è questa davvero poco santa alleanza tra gli esponenti del potere religioso, di quello politico e della élite culturale, che ha come scopo di togliere di scena Gesù, la Buona Notizia che il Padre ha inviato al mondo. Che incomoda, evidentemente, i Poteri. Se l’Evangelista lo annota, è perché questa eventualità rappresenta una costante nel tempo. Proprio oggi ci è capitato sotto gli occhi questo passo di una lettera scritta, il 6 agosto 1959, da don Giuseppe De Luca a mons. Montini, allora arcivescovo di Milano, sul clima che regnava nella Curia romana, nei mesi successivi all’elezione a papa di Giovanni XXIII: “La Roma che tu conosci e dalla quale fosti esiliato non accenna a mutare come pareva che dovesse pur essere alla fine. Il cerchio dei vecchi avvoltoi, dopo il primo spavento, torna. Lentamente, ma torna. E torna con sete di nuovi strazi, di nuove vendette. Intorno al carum caput [Papa Giovanni] quel macabro cerchio si stringe. Sì, ricomposto, certamente”. A essere realisti, il cerchio dei vecchi avvoltoi non ha mai cessato di volare sulla chiesa, cercando di volta in volta le alleanze giuste che consentano di neutralizzare e spegnere i fermenti di Vangelo che lo Spirito non cessa di seminare ovunque. Anche dove sembrerebbe ormai impossibile. Sì, i vecchi avvoltoi. Ma il Vangelo aggiunge anche che i poteri riescono ad avere complici, nella loro manovra, gente del popolo, religiosi devoti come i farisei assieme a sostenitori della casa di Erode, il ricco, corrotto e dissoluto tetrarca della Galilea. E, allora, una volta di più, in ballo, potenzialmente, ci siamo anche noi. Ed è, perciò anche a noi che Gesù dice: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12, 17). Ma si tratta di intenderlo bene. Gesù non si preoccupa di garantire il mantenimento dell’ordine sociale, l’ossequio alle autorità costituite, il pagamento delle tasse, e neppure di richiamare il nostro dovere di assolvere i nostri obblighi religiosi. Si premura invece che si dia a Dio ciò che è di Dio. Non un dio qualunque, creato ad hoc dal “sistema-mondo” o da noi stessi costruito a nostra immagine e somiglianza, ma il Padre che, continuamente, dona e si dona, si prende cura, e ci vuole liberi da ogni oppressione, politica, economica, sociale, religiosa. Se noi diamo a Dio, a questo Dio, ciò che da Lui abbiamo ricevuto, la nostra vita in primo luogo, se cioè facciamo di essa l’espressione di questo assoluto, non ci prostituiremo più davanti a nessun Cesare, non ci lasceremo beffare da nessun “unto del Signore”, ma ci lasceremo guidare da Dio nella scelta corretta in ogni situazione. Scelta che ribadirà sempre e comunque il primato dell’uomo, di ogni uomo. Perché, come diceva mons. Romero, parafrasando s. Ireneo, “la gloria di Dio è che il povero viva”. E, di conseguenza, il suo disonore, la sua più vera negazione, consiste nello sfruttamento, nell’oppressione, nell’esclusione, nella morte a cui questo nostro Sistema condanna i poveri. Di fronte a questo, le nostre chiese che fanno, noi che facciamo?
Noi, oggi, si fa memoria di Jacques de Jesus, carmelitano, martire sotto la dittatura nazista, di Giulio Facibeni, prete per gli altri, e di Blandina e compagni, martiri in Gallia.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Tobia, cap.2, 9-14; Salmo 112; Vangelo di Marco, cap.12, 13-17.
La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali africane.
Lo scorso 16 maggio, a Rifredi (Firenze), nella parrocchia di S. Stefano in Pane, che fu di don Facibeni, si sono riunite circa 300 persone, espressione di diverse realtà ecclesiali del vostro Paese, nel Convegno “Il Vangelo che abbiamo ricevuto”. Vi erano convenute, mosse dalla comune convinzione che “Il Concilio Vaticano II è stato ed è una grande grazia, la grazia maggiore donata alla Chiesa del nostro tempo, perché essa riscopra la forza del Vangelo nella storia vissuta” e dalla consapevolezza che “Il Signore ci ha chiamati a edificare non una chiesa che condanna, ma una chiesa che manifesti la misericordia del Padre, viva nella libertà dello Spirito, sappia soffrire e gioire con ogni donna e con ogni uomo che le è dato di incontrare”. Gli amici e amiche che desiderassero saperne di più, potranno trovare i contributi nel sito www. Statusecclesiae.net . Noi scegliamo di congedarci proponendovi un brano dell’intervento del teologo don Pino Ruggieri, che ha per titolo “Per una chiesa della fraternità”. Che è, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
La via della povertà, come stile della chiesa nel mondo, significa una cosa molto semplice. Nella sua missione in mezzo agli uomini la chiesa deve usare gli stessi mezzi che ha impiegato il Cristo e cioè soltanto la potenza del Vangelo. La chiesa dei poveri è prima ancora una chiesa povera. […] I privilegi giuridici che la chiesa ha accumulato lungo i secoli vanno abbandonati laddove il loro uso può far dubitare della sincerità della testimonianza evangelica. Dovremmo ben comprendere l’ironia eversiva dell’autore della lettera agli Efesini quando, usando proprio il linguaggio delle armi, ci esorta a prendere l’armatura completa di Dio, la verità per cintura dei nostri fianchi; a rivestirci della corazza della giustizia; a mettere come calzature ai nostri piedi lo zelo dato dal vangelo della pace; a prendete oltre a tutto ciò lo scudo della fede, con il quale potremo spegnere tutti i dardi infocati del maligno, e anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio. Il destino di questa istanza evangelica come stile della missione della chiesa, dopo il Concilio e fino ai nostri giorni, è stato ed è amaro. Con l’eccezione dei vescovi dell’America Latina, possiamo dire che i brani relativi siano stati semplicemente censurati dal magistero ecclesiastico successivo. Di “Lumen Gentium” 8, 3, per lo più viene citato solo l’ultima parte, quella della necessaria penitenza nella chiesa senza alcun nesso con l’istanza della povertà evangelica. L’attuale ricorso da parte della gerarchia ecclesiastica a strumenti giuridici e politici per la difesa dei valori considerati essenziali è il riflesso lampante di questa censura. E quando si parla di povertà, esigita soprattutto dai ministri della chiesa, se ne parla in senso individuale, non come stile oggettivo e obbligatorio della chiesa stessa nell’annuncio e nella testimonianza del vangelo. Sta a noi, se vogliamo proprio evitare la ricaduta della chiesa nel temporalismo, nella pretesa di contendere e controllare gli altri poteri presenti nella società, di far valere la forza del vangelo con mitezza e testardaggine, nella parrhesia che lo Spirito dona a coloro che se ne lasciano conquistare. (Giuseppe Ruggieri, Per una chiesa della fraternità).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.