Carissimi,
soffrire, il padre della parabola (Lc 15, 11-32), davanti alla richiesta del figlio, deve avere sofferto. Ma non lo ha dato a vedere. Dio, ci dicevamo stamattina, è [anche] questo silenzio rispettoso delle nostre scelte, della nostra libertà. Che noi capiremo, se mai lo capiremo, dopo. Strana figura di padre, questo Dio, di cui non ci riesce di trovare l’equivalente in nessuna esperienza umana, e che, tuttavia, Gesù, nel raccontarcelo, deve aver pur pensato come modello per le famiglie, e forse anche per il suo gruppo (quello che sarebbe più tardi divenuto la sua chiesa), sempre che abbia avuto in mente per esso una qualche funzione ed esercizio dell’autorità. Visto che Lui parlava sempre e solo di servire. O, ispirandosi all’immagine del pastore, di pascere, ma più ancora di dare la vita. Per poco che trapeli, la nostra reazione di fronte all’allontanamento o alla ribellione (nelle sue molteplici forme, anche quella, minima, della discordanza di idee) da parte di un figlio, o di un componente della comunità, di un fedele della chiesa, non riesce a nascondere almeno un filo di amarezza, dar voce ad una stretta del cuore. Lui, no. Né prima, né dopo. La strada della libertà deve essere percorsa sino in fondo e Lui, questo, lo mette sempre in conto. Certo l’insegnamento c’è, è lì. Ma ciascuno ha i suoi tempi per riconoscerlo, assimilarlo o meno, e, infine, tradurlo nel concreto di una situazione. Quella che è data dall’ambiente da cui si viene e in cui si vive, ma in primo luogo dal dato che si è. Sono tutti elementi che Lui conosce e che a noi invariabilmente sfuggono. E tuttavia, Lui non giudica, noi sì. Ciò che vuole che si sappia è, comunque, che Egli sta infinitamente sopra e al di là delle nostre colpe e dei nostri sensi di colpa, così come dei nostri pentimenti superficiali o solo opportunistici, e anche di quel peccato, peggiore di tutti, che è la nostra mancanza di misericordia. Quello che, sì, più di ogni altra forma di odio, di vero o presunto disprezzo per la vita, di omicidio, di guerra, ci scomunica, ci estranea, cioè, “ipso facto” dalla comunione con Lui. Alla quale, tuttavia, Egli non cessa di richiamarci e sospingerci. Anche se fossimo vescovi senza cuore. Così simili al fratello maggiore della parabola. Che, del Padre, ha capito ancora meno del figlio ribelle.
Oggi noi si fa memoria di Fannie Lou Hamer, paladina dei diritti civili dei negri afro-americani, e di Chiara Lubich, promotrice del dialogo interreligioso.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Michea, cap.7, 14-15. 18-20; Salmo 103; Vangelo di Luca, cap.15, 1-3.11-32.
La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.
Anche per stasera è tutto. Noi ci congediamo qui, lasciandovi ad una citazione di Chiara Lubich, che troviamo in rete, e che è per oggi il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Penso che il dialogo supera di gran lunga la tolleranza; anche se non la disprezzerei del tutto la tolleranza, in quanto in certi posti conviene che ci sia, perché almeno, per essa, non c’è la lite, la lotta. Però il dialogo è tutta un’altra cosa: è un arricchimento reciproco, è un volersi bene, è un sentirsi già fratelli, è un creare una fraternità universale già su questa terra. Naturalmente il dialogo è vero se è animato dall’amore vero. Ora l’amore è vero se è disinteressato; se no non è amore. È egoismo. In tal caso sarebbe un dialogo costruito senza l’amore; quindi non sarebbe un dialogo, ma um’altra cosa: proselitismo, ad esempio. Il proselitismo deve restare fuori da questa porta, non può esserci, perché altrimenti non c’è dialogo. Dialogo significa amare, donare quello che abbiamo dentro di noi per amore dell’altro, e anche ricevere e arricchirsi. (Chiara Lubich, da un messaggio del 1998)
Ricevete l’abbraccio dei vistri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.