Carissimi,
“Quando fu giorno, chiamò a sé discepoli e ne scelse dodici, a cui diede il nome di apostoli: Simone, che chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo d’Alfeo, Simone soprannominato Zelòta, Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota, che fu il traditore” (Lc 6, 13-16). Marco, nel passo parallelo, specifica che li costituì “perché stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni” (Mc 3, 14-15). Gesù, diceva il vangelo, li scelse dopo un’intera notte in preghiera. E c’è da pensre che abbia compiuto la scelta giusta, conforme alla volontà del Padre. Nonostante i pasticci che gli avrebbero combinato, le resistenze e i fraintendimenti rispetto al suo insegnamento, gli abbandoni, le sconfessioni, i tradimenti. Proprio come noi, ci dicevamo stasera. Dio, come allora Gesù, non cessa di darci fiducia, dopo averci chiamati a stare con lui. Noi, che, stasera, non si arrivava neppure a dodici, un’infermiera, due casalinghe, un professsore in pensione, una giornalista anche lei già in pensione, una terapeuta olistica, un operaio del Comune, un’insegnante e due preti. Con le nostre storie di prima e di dopo. Quanto al prima, poco importa, anche allora Gesù non era andato troppo per il sottile. Ma il dopo esige di più, si è caricati di responsabilità nei confronti della Parola e in ordine alla testimonianza. “Perché avessero il potere di scacciare i demòni” è detto nel vangelo. Compito dei cristiani è, così, eliminare gli elementi di divisione, le barriere di incomprensione, i muri di separazione, gli atteggiamenti di inimicizia, le parole di odio, le chiusure al dialogo, il rifiuto delle differenze, gli ostinati manicheismi, la mancanza di solidarietà, lo sfruttamento degli uni sugli altri, il sostegno dato alle forze di oppressione, il perseguimento di politiche di ingiustizia, di accumulazione di ricchezze, dei privilegi per pochi, l’asservimento a logiche di violenza, di guerra, di vendetta. Sono tutti questi, ed altri ancora, i demóni, che siamo inviati a scacciare. Mancare in questo, sarebbe rendere inutile il nostro battesimo, la nostra, questa sì, identità di cristiani.
Oggi noi si fa memoria di Steven Biko, martire della libertà e della dignità del suo popolo, e di Alfonso Acevedo (Foncho), martire della fede al servizio degli sfollati in Salvador.
Bantu Steve Biko era nato, terzo di quattro figli, a King William’s Town (Sudafrica) il 18 dicembre 1946, da Mathew Mzingaye Biko e Alice Nokuzola Biko. Entrato nelll’Università di Natal nel 1966, per studiarvi medicina, ne fu espulso nel 1972, a causa delle sue attività politiche, che denunciavano i soprusi del governo bianco e la politica razzista dell’apartheid. L’intento di Biko era di contribuire a liberare le coscienze degli africani. Fu uno dei fondatori del Movimento di Coscienza Nera. Il governo sudafricano che inizialmente aveva tollerato questa e altre organizzazioni simili, cominciò a reprimerle duramente a partire dai primi anni 70. Biko fu ripetutamente arrestato e impedito di svolgere molte attività. Sposato a Ntsikie Biko, ebbe da lei due figli. Nell’agosto 1977 fu nuovamente incarcerato. Crudelmente percosso dalla polizia, entrò in coma e morì, un mese dopo il suo arresto, il 12 settembre.
Alfonso Acevedo o, come lo chiamavano tutti, Foncho, era un operatore di pastorale di 46 anni, padre di otto figli, capo della pubblicità alla “Prensa Gráfica” di San Salvador. Ma, più di ogn altra cosa, era un cristiano che svolgeva le funzioni di parroco a San Antonio Abad, dopo che le persecuzioni contro la Chiesa avevano lasciato senza prete questo popoloso quartiere della capitale. Da oltre 10 anni, Foncho era l’instancabile animatore della comunità, facendosi in quattro per attendere alle necessità di orfani, vedove e sfollati di guerra. Preparava inoltre le celebrazioni liturgiche e, quando ce n’era di bisogno, cercava preti per presiedere l’eucaristia e amministrare i sacramenti. La sua dedizione, preparazione ed esperienza ne avevano fatto il responsabile dell’équipe di pastorale locale. E questo, allora, era considerato un crimine. Tanto è vero che, proprio come un delinquente, alle due del mattino del 12 settembre 1982, uomini in uniforme lo prelevarono di casa e, bendato e ammanettato, se lo portarono via. Di lì a poco l’avrebbero torturato e finito piantandogli tre proiettili in testa. All’alba del giorno dopo, il suo cadavere fu fatto ritrovare all’altro capo della città.
I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera ai Colossesi, cap.2, 6-15; Salmo 145; Vangelo di Luca, cap.6, 12-19.
La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali africane.
Prendendo spunto dalla memoria di Steve Biko, vi proponiamo nel congedarci una pagina del teologo sudafricano Ananias Mpunzi, tratta dal suo saggio “Schwarze Theologie und Freiheit”, che troviamo in traduzione italiana in AA.VV “La teologia contemporanea” (Marietti) e che è, così, per oggi, il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
È un’offesa al Creatore, quando qualcuno nega la nostra specifica personalità in qualsiasi forma, ed è un’offesa maggiore, quando tolleriamo negli altri un simile comportamento, che ci conduce a farci un’immagine di noi stessi più meschina di quella che si conviene al valore e alla peculiarità dell’individuo. Noi cristiani dobbiamo continuamente affermare di essere uomini. Ma ci sono uomini di ogni possibile colore, forma e grandezza. La mia umanità passa attraverso il mio essere magro o grasso, attraverso la mia piccola o alta statura, il mio naso grosso, le mie orecchie piccole, il mio essere nero o bianco. Non sono una persona nonostante il mio nasone. Io sono persona, perché fanno parte di me il mio naso grosso, le mie orecchie piccole, la corporatura slanciata e l’essere nero. Senza la totalità di queste cose, che io sono, io non sarei io! Quando affermo la mia umanità, devo affermare tutto ciò che mi costituisce. Devo affermare la mia nerezza. Anche Dio deve affermarla, altrimenti non potrebbe conoscermi o avere in qualche modo a che fare con me, e la mia nerezza mi escluderebbe da lui. Mi escluderebbe dall’essere persona. Questo non significa che dobbiamo affermare tutto ciò che dipende da noi in modo tale, da non lasciare più alcuno spazio al mutamento. Dobbiamo dire di sì e confermare ciò che non possiamo mutare (ad esempio la nostra nerezza) e dobbiamo riconoscere ed apprezzare ciò che possiamo cambiare (per esempio la nostra posizione nei confronti della nostra nerezza). E a ciò che possiamo cambiare appartiene anche quello che senza alcuna limitazione possiamo affermare come buono. Ci sono comportamenti e valori, che noi stessi non possiamo accettare come buoni: dobbiamo riconoscerli e capirli, e fare in modo di rinnovarci. (Ananias Mpunzi, Schwarze Theologie und Freiheit).
Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.