Giorno per giorno – 04 Settembre 2023

Carissimi,
“Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (Lc 4, 18-19). Rifacendosi alla profezia di Isaia, Gesù disegna in questi termini la missione cui si sente chiamato. Stasera, ci dicevamo che non dovrebbe essere diverso per le Chiese che si rifanno a Lui, e per tutti i loro fedeli. In questo dovremmo poter verificare la nostra ortodossia, a cui le sovrastrutture dottrinali aggiuntesi nel tempo dovrebbero al massimo rimandare. Che facciamo noi per i poveri di ogni povertà, i prigionieri di ogni cattività, i ciechi di ogni cecità, gli oppressi di ogni oppressione? E la nostra parola è parola di grazia (e non solo per alcuni) o di disgrazia, di liberazione (per tutti) o di oppressione, di misericordia o di castigo, di riconciliazione o di vendetta? È lieto annuncio o minaccia? Che Spirito ci ha consacrati con l’unzione: lo stesso Spirito di Gesù o lo spirito menzognero del Serpente? Siamo rimasti gente a caccia di favori, mercanti della nostra salvezza individuale, calcolatori meschini dei nostri meriti, costruttori di muri e di barriere per escludere gli altri? In questo caso Gesù, cioè Dio, sta già altrove, in azione fuori dalla chiese che agiscono così, in segreta alleanza con chi ci sta a prendersi cura delle vedove di Sarepta e dei lebbrosi come Naaman il Siro (cf v. 24-27). E noi ci stiamo?

Oggi il calendario ci porta le memorie di Mosè, profeta, guida e legislatore d’Israele; Albert Schweitzer, teologo, filosofo, organista, medico e missionario in Africa; André Jarlan, prete e martire in Cile; Rabbi Simcha Bunam di Pžysha, mistico ebreo.

Figura dominante nella Bibbia, dall’Esodo al Deuteronomio, Mosè è considerato dall’ebraismo tradizionale “Padre dei profeti”, il profeta maggiore, superiore a tutti coloro che lo precedettero e lo seguirono. Nell’ebraismo che seguì la diaspora, Mosè é “Moshè Rabbenu”, “Mosè, nostro Maestro”. La sua storia, che ha come unica fonte la Bibbia, si svolge, probabilmente, all’epoca del faraone Ramses II (1301-1234 a.C.). Alla guida del suo popolo, per quarant’anni, durante il lungo viaggio attraverso il deserto, gli fornì una formazione religiosa, basata sul culto esclusivo di Jhwh, il Dio che libera [Israele] dalla schiavitù, facendone suo popolo testimone. Mediatore dell’Alleanza sul Sinai, Mosè pose le basi dell’organizzazione sociale e legislativa di Israele, quale nazione indipendente. Giunto alle soglie della terra promessa, punito da Dio a non entrarvi, potè però contemplarla, prima di morire, dalla cima del monte Nebo. La morte avvenne il 7 del mese di Adar dell’anno 2488 [dalla creazione del mondo]. Dio stesso seppellì Mosè, nella valle, nel paese di Moab, davanti a Beth Pe’or, secondo l’espresso desiderio del suo servo. Che volle con ciò testimoniare che continuava ad amare tutti come suoi propri figli, anche quanti avevano peccato gravemente contro Dio (cf Nm 25,3).

Albert Schweitzer nacque in Alsazia (all’epoca tedesca, ma oggi francese), il 14 gennaio 1875, figlio di un pastore luterano. Studiò a Strasburgo e a Parigi, dove, nel 1900, ottenne il dottorato in filosofia e teologia. Ben presto si fece conoscere come pregevole organista e profondo conoscitore della musica di Bach. La notte di Pentecoste del 1905, Schweitzer decise di lasciare l’insegnamento accademico e la brillante carriera, per dedicare la vita alla lotta contro la miseria e la sofferenza. A tal fine, decise di studiare medicina. Nel 1913, lui e la moglie, Hélène Bresslau, partirono alla volta di Lambaréné, nell’attuale Gabon, dove costruirono l’ospedale che, in seguito, diventerà famoso. Schweitzer era profondamente convinto della responsabilità e del debito infinito accumulato dai cristiani bianchi nei confronti dell’Africa, attraverso il dominio coloniale. La sua vita e la sua dedizione come medico furono, per lui, il modo di pagarne personalmente una piccola quota. Nel 1952 ricevette il Premio Nobel per la Pace. Morì il 4 settembre del 1965.

André Jarlan era nato in Francia il 25 maggio 1941. Ordinato prete a Rodez, nell’Aveyron, il 16 giugno 1968, era stato destinato alla parrocchia di Aubin. Le sue esperienze con la Gioventù e l’Azione operaia cattolica e, più tardi, come prete operaio, assieme ai numerosi incontri con missionari lo portarono a maturare la vocazione missionaria. Chiese allora ed ottenne di essere inviato come prete “fidei donum” in Cile, dove giunse nel febbraio del 1983, in piena dittatura pinochetiana, stabilendosi a La Victoria, un quartiere povero della periferia di Santiago. Abitando con un altro prete, Pierre Dubois, in una casa di fango e paglia come quelle dei vicini, si dedicò, con pazienza e allegria, ai bambini, ai giovani e alle categorie più emarginate: drogati, disoccupati e senza-tetto. Il 4 settembre 1984, gli abitanti di La Victoria promossero una manifestazione di protesta. Giunsero sul posto plotoni di polizia che le repressero con estrema violenza. I preti si diedero da fare per soccorrere i feriti, consolare, incoraggiare. Al tramonto, approfittando di un momento di calma, André si ritirò in camera a pregare. Era seduto al tavolino, con la Bibbia aperta, quando, nel quartiere, giunse di nuovo la polizia. Due proiettili attraversarono le pareti e una lo raggiunse alla testa. André reclinò il capo sulla Bibbia aperta al salmo 130, che si apre con: “Dal profondo a te io grido, Signore; Signore, ascolta la mia voce”. Il giorno 7, migliaia di abitanti del quartiere accompagnarono la bara portata a spalle fino alla cattedrale dove l’arcivescovo, durante l’Eucaristia, disse: “André, fratello, il tuo sacrificio comincia a fiorire con la fecondità che Dio concede a chi dà la vita per amore”.

Rabbi Simha Bunam era nato a Voidislav (Polonia) nel 1767. Ebbe modo di lavorare come scrivano, mercante di legna e farmacista. Introdotto nel chassidismo dal suocero, divenne dapprima discepolo di Rabbi Israele, il Magghid di Kosnitz, e, in seguito di Rabbi Giacobbe Isacco (il “Chozeh” o Veggente) di Lublino, da cui si distaccò per seguire a Pžysha, l’omonimo discepolo di quello, detto lo Jehudi, divenendo in poco tempo il più caro dei suoi allievi. Al punto da essere scelto, alla sua morte, benché riluttante, come suo successore dalla grande maggioranza dei chassidim di Pžysha. Secondo le parole di Martin Buber “L’insegnamento, quando vi si mise veramente, era per lui un impegno vitale, grave di responsabilitá; e il suo influsso sui giovani, che venivano da ogni parte e lo scongiuravano di lasciarli vivere vicino a lui, era sconvolgente. Poiché i giovani lasciavano per lui casa e mestiere, le famiglie in tutto il paese lo osteggiavano come nessun altro”. Un giorno i suoi scolari chiesero a Rabbi Bunam: “Da che cosa riconosciamo, in questa epoca senza profeti, se un peccato ci è stato perdonato?”. Rispose: “Lo riconosciamo dal fatto che non commettiamo più il peccato”. Disse una volta: “Sì, io posso indurre a conversione tutti i peccatori, ma i bugiardi no”. Rabbi Simha Bunam morì il 12 elul 5587 (4 settembre 1827).

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
1ª Lettera ai Tessalonicesi, cap. 4,13-18; Salmo 96; Vangelo di Luca, cap. 4,16-30.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.

E, per stasera, è tutto. Noi ci si congeda qui, lasciandovi alla lettura di un brano di Albert Schweitzer, tratto dal suo libro “Filosofia della civiltà” (Fazi Editore). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Avere rispetto per la vita significa essere colti dalla volontà infinita, insondabile e travolgente in cui ogni essere ha il suo fondamento. È tale rispetto che ci innalza al di sopra della conoscenza delle cose e ci fa diventare come l’albero, preservato dalla siccità perché piantato vicino al ruscello. Ogni atto di devozione per la vita sgorga dal rispetto per la vita e dai principi ideali che sono necessariamente impliciti in esso. È nel rispetto per la vita che si manifesta una simile devozione nella sua forma più elementare e più profonda, in quanto questa non è ancora assillata dai problemi dell’interpretazione del mondo o se ne è già liberata: è, di fatto, una venerazione che deriva completamente da un bisogno interiore e che dunque non pone domande sulla finalità delle cose. Anche la volontà di vivere, una volta che è stata afferrata dal pensiero e ha esplorato i fondamenti dell’affermazione dell’universo e dell’esistenza, intende avere fortuna e successo perché è in pari tempo una volontà che aspira a realizzare degli ideali. Ma non è di fortuna e di successo che questa volontà vive. Accoglie con gratitudine la parte che le spetta, ma come un semplice incoraggiamento che la fortifica. È determinata ad agire, anche se fortuna e successo dovessero esserle negati. Semina come un contadino che non bada più a mietere il raccolto. La volontà di vivere non è una fiamma che arde solo se alimentata da eventi favorevoli: si diffonde anche quando – e sprigiona allora la sua luce più pura – la sua fiamma si alimenta da sé. E anche se gli eventi dovessero procurarle dolore, non porteranno mai questa volontà attiva a spegnersi. È proprio questa volontà, sostenuta da un profondo rispetto per la vita, che rende l’esistenza – anche quella considerata comunemente non più degna di essere vissuta – preziosa, per il fatto che riesce a salvaguardarne la libertà rispetto alle circostanze avverse del mondo. Un senso di quiete e di pace si sprigiona dall’uomo che è permeato da una simile volontà ed esso raggiunge gli altri esseri umani, e questi testimonieranno la forza segreta della libertà dello spirito che dobbiamo conservare, sia nell’azione che nella sofferenza, se vogliamo vivere la vita in modo autentico. (Albert Schweitzer, Filosofia della civiltà).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 04 Settembre 2023ultima modifica: 2023-09-04T21:26:58+02:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo