Giorno per giorno – 12 Giugno 2022

Carissimi,
“Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future” (Gv 16, 12-13). I cinquantanni di matrimonio di dona Maria e Pedro, che sono giunti qui dal Paraná, con figli e figlie, nuore e generi, e una nipote in rappresentanza degli altri, per celebrarli in monastero, aiutano forse più di qualunque riflessione teologica, a intendere qualcosa del mistero della Trinità, evocato dalla solennità odierna. Cinquantanni sono un infinitesimo frammento di eternità e se si guarda ad essi con lo stesso sentimento di amore da cui hanno preso il via, si riesce a vedere in una luce nuova tutto ciò che si è passato e il bene che ne è venuto, anche attraverso le difficoltà, le preoccupazioni, le sofferenze e le gioie, ovviamente. Nel piccolo e nel grande mondo, da cui non ci si è mai segregati. Quello stesso sentimento di amore, moltiplicato all’infinito, è proprio di colui che Gesù ci ha insegnato essere il Padre. Che già chiamarlo così ci dice che Dio è relazione Padre-Figlio. Nell’amore, attraverso lo Spirito. Una circolarità che non può rimanere chiusa in se stessa, perché l’amore chiede di espandersi – e, se si tratta di Dio, all’infinito. All’interno di essa, tutto è ricompreso, nello spazio e nel tempo. La nostra fede nella Trinità è dunque affermazione della paternità di Dio, che nel Figlio, abbraccia tutto e tutti, di cui è l’Origine, amandoci dello stesso amore. Come e infinitamente più di un buon padre, ci segue nei nostri tentativi, alimenta la nostra creatività in ogni campo, attraverso l’azione del suo Spirito, si rallegra per le nostre conquiste e progressi (“I miei figli mi hanno superato!” arriva a dire secondo un racconto rabbinico), intende anche le nostre diffidenze nei suoi confronti, e, naturalmente, patisce dei mali che provochiamo o che subiamo. Infine, se non è sperare troppo, si aspetta che, un giorno o l’altro, si apprenda a vivere con lo stesso amore, che non esclude nessuno, in cui almeno noi diciamo di credere. Trinità umana specchio della Trinità divina.

I testi che la liturgia di questa Domenica della Santissima Trinità propone alla nostra riflessione sono tratte da:
Libro dei Proverbi, cap.8, 22-31; Salmo 8; Lettera ai Romani, cap.5, 1-5; Vangelo di Giovanni, cap.16, 12-15.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le Comunità e Chiese cristiane.

Il nostro calendario ecumenico porta oggi le memorie di Medgar Wiley Evers, martire della lotta nonviolenta degli afroamericani, e di Enmegahbowh, primo prete e missionario indiano d’America.

Medgar Wiley Evers era nato il 2 luglio 1925, a Decatur, nel Mississippi, figlio di James and Jessie. Aveva frequentato scuola fino a quando, diciottenne, era stato chiamato sotto le armi e spedito in guerra. Al ritorno dal fronte, si era iscritto alla Facoltà di economia e commercio dell’Università statale di Alcorn e, lì, oltre a studiare, come ogni bravo ragazzo, cantava nel coro, giocava a calcio, gareggiava in atletica leggera, redigeva il giornaletto dell’Università. Dopo la laurea, sposò Myrlie Beasley e insieme furono ad abitare a Mound Bayou, dove cominciò la sua lotta per i Dirittti Civili, organizzando il boicottaggio dei distributori di benzia che non permettevano l’uso delle toilette ai neri e creando sezioni locali del NAACP (Associazione nazionale per il progresso della popolazione di colore). Per mantenere la famiglia, lavorò qualche anno come agente assicurativo, fino al 1954, quando la Corte suprema dichiarò incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole. Chiese allora l’ammissione alla Facoltà di Legge del Mississippi, ma gli fu negata. Questo però richiamò su di lui l’interesse della direzione nazionale del NAACP, che gli propose una collaborazione a tempo pieno. Trasferitosi con la moglie a Jackson, cominciò a investigare gli episodi di violenza contro i neri e si impegnò per fare ammettere all’università James Meredith, che sarebbe diventato di lì a poco il primo afroamericano a varcare i cancelli di un’università del Mississippi. Tutto bene, ma crebbe l’odio nei confronti di Evers. Il quale, la notte del 12 giugno 1963, rientrando a casa, fu ucciso da un proiettile assassino. Il killer, un sostenitore della supremazia dei bianchi, tale Byron De La Beckwith, processato due volte negli anni sessanta, riuscì in entrambi i casi a farla franca. Solo nel 1994, sottoposto nuovamente a processo, sarebbe stato riconosciuto colpevole e condannato all’ergastolo. Medgar Evers, lui, aveva scritto, qualche anno prima di essere ucciso: “Può sembrare strano, ma io amo il Sud. Io non potrei scegliere di vivere altrove. Qui c’è terra, dove un uomo può allevare il suo bestiame, ed io comincerò a farlo un giorno o l’altro. Ci sono laghi dove puoi lanciare l’amo e pescare la tua trota. Qui c’è spazio dove i miei bambini possono giocare e crescere e diventare buoni cittadini. Sempre che l’uomo bianco glielo consenta”.

Enmegahbowh fu il primo nativo americano ad essere ordinato prete nella Chiesa Episcopale degli Stati Uniti. Era nato nel 1807 da una famiglia dell’etnia Odawa (o Ottawa, da cui traggono il nome alcune città degli Usa e la capitale del Canada), stanziata nelle regioni dell’Ontario, Oklahoma e Michigan. Il suo nome significa “Colui che prega [per il suo popolo] stando in piedi”. Sposato a una donna degli indiani Ojibwa, entrò a far parte di questa tribù. Fu nel 1851, quando era già più che quarantenne, che Enmegahbowh passò dal Midewiwin, la religione sciamanica dei suoi antenati, al cristianesimo, facendosi battezzare da James Lloyd Breck, un missionario venerato come santo dalla Chiesa episcopale. Divenuto diacono, fu mandato, nel 1858, a Crow Wing, nel Minnesota, per aiutare nella fondazione di una nuova missione, di cui assunse la responsabilità, nel 1861. Fu ordinato prete nel 1867. In anni assai difficili, segnati dalle continue prepotenze dei bianchi, e dal comprensibile desiderio di vendetta degli indiani, Enmegahbowh fece di tutto per tutelare i diritti della sua gente e salvaguardare la pace, affrontando ogni rischio e pericolo pur di affermare il messaggio di vita di Gesù. Morì nella riserva indiana della Terra Bianca, nel nord Minnesota, il 12 giugno 1902, all’età di 95 anni. Il calendario episcopale dei santi ne fa memoria in questo giorno.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, con una riflessione del Card. Carlo Maria Martini sulla Trinità. Tratta dalla sua Lettera pastorale 1999-2000 “Quale bellezza salverà il mondo”, è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La Trinità si manifesta nel susseguirsi degli eventi di salvezza, al cui centro sta il mistero dell’Incarnazione. Dio si rivela Padre mandandoci il Figlio; il Figlio rivela la sua unità col Padre abbandonandosi a Lui e alla sua volontà fino alla morte; lo Spirito è donato dal Figlio e ne continua la presenza presso gli uomini. Così, a partire dal mistero pasquale, Dio si mostra Padre, Figlio e Spirito santo. Si tratta dunque di entrare nel mistero della Trinità a partire dal Figlio, con un movimento spirituale che coinvolga tutta la persona. Gesù stesso ha detto: “Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”. Occorre quindi entrare nell’esperienza del Figlio. Questa esperienza si esprime soprattutto in due momenti: nella gratitudine e nell’abbandono. Il momento della gratitudine è espresso in testi come: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra…”, o come: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato”. Si tratta di partecipare alla gratitudine di Gesù che tutto riceve dal Padre suo e in tutto trova modo di lodarlo. Vivendo lo spirito di riconoscenza e di gioia filiale per tutto quanto riceviamo, anche se contrario alle nostre attese, noi entriamo in quella conoscenza che Gesù ha del Padre e viviamo in Lui qualcosa del mistero trinitario. Il momento dell’abbandono è espresso in testi come: “Non come voglio io, ma come vuoi tu” e come: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”, letto alla luce di Mt 27,47: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. In questi momenti Gesù esprime al sommo la sua fiducia totale nel Padre, da cui pure si sente come abbandonato. È entrando intimamente nel cuore di Cristo con un’esperienza simile alla sua che noi possiamo dire di conoscere un po’ di più il Padre passando per i sentimenti del Figlio. Ci sono momenti della vita in cui tale esperienza richiede una devozione eroica. Sentiamo allora più chiaramente che non sta in noi vivere tali sentimenti, ma è lo Spirito che li suscita dentro il nostro cuore. Siamo così nel vivo dell’esperienza che Gesù fa del Padre e dello Spirito. La Trinità non è più allora un teorema astratto o una serie di semplici racconti, ma qualcosa che sentiamo dentro e che ci fa vibrare all’unisono col mistero divino. Da questo centro spirituale è possibile riconsiderare le domande sul mondo e sulla storia, non per avere risposte ancora una volta teoriche e quasi distaccate da noi, ma per intuire quale deve essere il nostro coinvolgimento in quella passione d’amore e di misericordia con cui la Trinità santa ha creato il mondo e lo ama per condurlo verso la sua pienezza. (Carlo Maria Martini, Quale bellezza salverà il mondo – Lettera pastorale 1999-2000).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 12 Giugno 2022ultima modifica: 2022-06-12T21:18:28+02:00da fraternidade
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