Giorno per giorno – 14 Gennaio 2022

Carissimi,
“Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. Non potendo però portaglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov’egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati” (Mc 2, 3-5). Quando leggiamo del paralitico, viene subito in mente quanto Paolo scrive nella Lettera ai Romani: “Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra” (Rm 7, 18, 21-23). La paralisi non è una paralisi fisica, ma l’incapacità di camminare sulla strada di Dio, cioè secondo la logica del dono e dell’incondizionato amore. Che tutti intuiamo essere il bene, ma che, nondimeno, siamo incapaci di perseguire. Perché bisogna in primo luogo averlo sperimentato. Qui entrano in funzione i quattro amici, figura di una Chiesa, che non si limita a sapere le cose (noi?) o ad assiepare i templi (noi?), ma che ha fatto in prima persona l’esperienza del perdono e della grazia. Sono loro (ed eventualmente noi) che portano a Gesù il paralitico (noi?), irriconciliato con se stesso e con gli altri, gravato di sensi di colpa, per l’esito fallimentare dei suoi tentativi, perché possa udire dal Vangelo la buona notizia che è sempre e in ogni caso riservata a tutti. Dopo di che potrà, sciolte le membra, camminare agevolmente, secondo il desiderio di bene, che prima solo lo frustrava, rendendolo infelice.

Oggi è memoria di Serafim di Sarov, mistico e asceta della Russia ortodossa, e di Leonhard Schiemer, pacifista anabattista, martire.

Prochor Mosnin (tale il suo nome alla nascita) era nato il 19 luglio 1759 a Kursk in una famiglia di commercianti, conosciuti da tutti come cristiani devoti e caritatevoli. Da ragazzo Prochor amava frequentare la divina liturgia e dedicarsi alla lettura di libri religiosi. Diciottenne, durante un pellegrinaggio alle Grotte di Kiev, vi conobbe il santo staretz Dositeo, che, confermandolo nella vocazione monastica, lo indirizzò al monastero di Sarov, affidandogli la preghiera del Nome come mezzo potente per restare unito a Dio. Dopo otto anni di noviziato, il giovane fece la sua professione monastica, ricevendo il nome di Serafim. Nel 1794 Serafim fu ordinato prete e ricevette il permesso di recarsi a vivere in una piccola capanna nella vicina foresta, per dedicarsi ad una vita di preghiera e digiuno e allo studio delle Scritture e degli scritti dei Padri. Lì visse, salvo brevi interruzioni, fino al 1810, quando, per obbedire alla richiesta dei monaci anziani, Serafim ritornò in monastero. Continuò tuttavia a vivere nella solitudine e nel silenzio della sua cella per altri dieci anni. Fu solo alla fine di questo lungo periodo di tempo che, obbedendo ad una visione del Cielo, si dispose ad accogliere quanti, visitando il monastero, aspettavano da lui una parola o un consiglio spirituale. Il vecchio monaco soleva allora salutare chiunque si recasse da lui con una prostrazione, un bacio e le parole del saluto pasquale: “Cristo è risorto!” e ad ognuno si rivolgeva chiamandolo con l’espressione “gioia mia”. Nel 1825 fece ritorno nella sua capanna nella foresta, dove, arricchito del dono della chiaroveggenza, continuò a ricevere migliaia di pellegrini da tutta la Russia. Serafim si riposò nel Signore il 1° gennaio 1833 del calendario giuliano (corrispondente al 14 gennaio del nostro calendario), mentre era inginocchiato davanti ad un’icona della Madre di Dio.

Leonhard Schiemer era nato verso il 1500 a Vöcklabruck (Alta Austria) in una famiglia molto religiosa, che l’aveva avviato al mestiere di sarto. Desideroso, però, di consacrarsi a Dio, Leonhard, poco più che adolescente, era entrato in un convento francescano, a Judenburg, ma sei anni più tardi, deluso dalla vita conventuale, ne era uscito, recandosi ad abitare a Norimberga, dove aveva ripreso l’antico mestiere. In questa città avvennero presumibilmente i primi contatti di Schiemer con gli ambienti anabattisti. Nel maggio 1527, recatosi a Nikolsburg, in Moravia, potè assistere alla disputa tra due diversi gruppi anabattisti, gli Stäbler (sostenitori della nonviolenza assoluta) e gli Schwertler (che sostenevano la liceità della difesa armata). Poche settimane più tardi quando, a Vienna, incontrò Hans Hut e la sua congregazione, Leonhard ne fece sue le tesi pacifiste e chiese di essere battezzato. Subito cominciò la sua attività di missionario, prima nella città di Steyr, poi a Salzburg e in Baviera. Nell’agosto 1527 partecipò, ad Augsburg, al Sinodo dei Martiri (chiamato così in seguito, perché un gran numero dei partecipanti trovò la morte a causa della fede professata). Inviato in Tirolo, si stabilì a Rattemberg, una cittadina sul fiume Inn, dove la congregazione locale lo volle suo vescovo. Il 25 novembre 1527, su pressione delle gerarchie cattoliche, Schiemer fu arrestato e imprigionato. Durante la prigionia, compose numerose opere, che avranno una notevole importanza nello sviluppo del movimento anabattista. Tra esse anche alcuni inni, che entrarono a far parte dell’Ausbund, l’innario in uso ancor oggi presso le comunità Amish. Nel gennaio 1528, un tentativo di fuga gli comportò un drastico peggioramento nelle condizioni di prigionia. Dopo ripetute sessioni di tortura, il giovane, non ancora trentenne, fu decapitato. Era il 14 gennaio 1528. Nei successivi dodici anni altri settanta anabattisti, uomini e donne, sarebbero morti a Rattenberg, testimoniando con il loro sangue la loro fedeltà al vangelo della pace e della nonviolenza.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
1° Libro di Samuele, cap. 8,4-7.10-22a; Salmo 89; Vangelo di Marco, cap. 2,1-12.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

“Ora celebreremo con te l’Eucaristia ed è il pane che hai mangiato che ti ha dato la forza per stare accanto ai deboli e ai poveri. Lo sapevi, l’Eucaristia ti ha insegnato a condividere. Ci hai spinto ad andare avanti nella vita. Tu hai amato Dio nella vita e questo amore lo hai manifestato con le opere. Il mondo ti ha salutato come il Re buono e il popolo ti ha riconosciuto come compagno di cammino. Pregheremo per te. Ci hai insegnato a vivere e anche a morire”. Sono le parole con cui p. Francesco Occhetta ha introdotto l’Eucaristia celebrata oggi per le esequie di David Sassoli, il Presidente del Parlamento Europeo, scomparso lo scorso 11 gennaio. Figura singolare per esemplarità nel panorama politico non solo italiano, che vorremmo generasse il desiderio di emularlo (e di scegliere chi lo intenda emulare), nel riportare la politica al servizio della gente, a partire dagli ultimi.

Noi ne facciamo memoria il giorno della sua scomparsa, il 4 settembre, ma vogliamo ricordarlo anche oggi, giorno della sua nascita, avvenuta a Kaysersberg, in Alsazia, nel 1875. Parliamo di Albert Schweitzer, che scelse di lasciare tutto per dedicarsi agli ultimi e più diseredati dell’Africa equatoriale. Scegliamo, nel congedarci, di proporvi una sua citazione tratta da “Filosofia della civiltà” (Fazi). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Non esiste l’essenza dell’essere in sé, ma solo un essere infinito che si manifesta in un numero infinito di fenomeni. È solo attraverso queste manifestazioni dell’essere e unicamente tramite quelle con cui entro in contatto che il mio essere si relaziona con l’essere infinito. Il donare me stesso all’essere infinito significa dedicarmi a tutte le manifestazioni dell’essere che hanno bisogno di me e alle quali posso offrirmi. Solo un’infinitesima parte dell’essere infinito rientra nel mio raggio d’azione. Tutto il resto passa davanti a me come navi che si trovano al largo e alle quali faccio segnali che non vengono compresi. Ma nel donarmi a tutto ciò che rientra nel mio raggio d’azione e che ha bisogno di me, sacrifico spiritualmente e intimamente me stesso a una parte dell’essere infinito, donando alla mia povera esistenza senso e ricchezza. Il fiume ha finalmente trovato il suo sbocco nel mare. Il donarsi all’assoluto non può che generare una spiritualità morta, dal momento che essa è un atto puramente intellettuale e non contiene in sé alcun motivo d’azione. Persino l’etica della rassegnazione non può vivere che miseramente sul terreno di un simile intellettualismo. Al contrario, nella mistica della realtà il donarsi agli altri non rappresenta più un atto puramente intellettuale, ma implica la partecipazione di tutte le forze vitali dell’uomo. Nella mistica della realtà, dunque, è all’opera una spiritualità che porta in sé, a livello di forza elementare, l’impulso all’azione. L’infausto principio secondo cui spiritualità ed etica sarebbero due concetti distinti non è più valido in questo caso: nella mistica della realtà esse costituiscono un tutto unico e compatto. (Albert Schweitzer, Filosofia della civiltà).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 14 Gennaio 2022ultima modifica: 2022-01-14T22:37:35+01:00da fraternidade
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