Giorno per giorno – 02 Giugno 2021

Carissimi,
“Riguardo al fatto che i morti risorgono, non avete letto nel libro di Mosè, nel racconto del roveto, come Dio gli parlò dicendo: ‘Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe’? Non è Dio dei morti, ma dei viventi!” (Mc 12, 26-27). Dopo farisei ed erodiani, si fanno ora avanti alcuni sadducei, a contestare Gesù e i suoi insegnamenti. Rappresentanti dell’aristocrazia sacerdotale e dei ceti che ne dipendevano o la sostenevano – ricchi latifondisti e grandi mercanti -, inclini ad appoggiare e appoggiarsi al potente di turno, che garantiva loro una situazione di privilegio, i sadducei riconoscevano come Scritture ispirate solo i libri della Torah; erano, comprensibilmente, sostenitori di quella che oggi chiameremmo teologia della prosperità ed erano rigorosi nell’interpretazione e applicazione della legislazione penale. Negavano la fede nella risurrezione (di cui non sentivano il bisogno, soddisfatti com’erano del benessere in cui vivevano), nella predicazione profetica, nell’esistenza di angeli e spiriti. Erano una sorta di teocon dell’epoca. Il vangelo di oggi ce li presenta venire a Gesù, giusto per metterne in ridicolo la fede nella risurrezione. Prendendo spunto dalla legge del levirato (cf Dt 25, 5), che imponeva al fratello di uno che fosse morto senza lasciare figli, di sposarne la moglie (il loro primo figlio sarebbe stato considerato a tutti gli effetti figlio del defunto, dandogli così una discendenza), pongono il quesito a Gesù: se la sfortunata restasse vedova per sette volte, senza avere figli, di chi sarà moglie nell’aldilà? Gesù si smarca subito dal piano del ridicolo in cui vorrebbero costringerlo – “non capite niente della Scrittura, altra è la dimensione che si vive nella risurrezione” – e va al nocciolo della questione, richiamando una parola del libro dell’Esodo, a cui anche i sadducei riconoscono ispirazione divina, quando Dio si presenta a Mosè come “Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe”, di personaggi, cioè, vissuti centinaia di anni prima. Che, se non fossero più, Dio sarebbe dio di niente, se invece Dio continua ad essere “Dio di” ogni creatura cui ha dato vita, è perché tutti, al morire, si nasce ad una nuova vita che ci unisce per sempre a Colui cui da sempre aneliamo come nostro compimento. Ci sarebbe solo da ricordarlo, per cercare di vivere coerentemente, già qui ed ora, la nostra vocazione di figli in cammino per la casa del Padre.

Il calendario ci porta oggi le memorie di Blandina e compagni, martiri in Gallia, di Jacques de Jesus, carmelitano, martire sotto la dittatura nazista, e di Giulio Facibeni, prete per gli altri.

Il documento conosciuto come Atti dei Martiri di Lione è una lettera che le Chiese di Lione e di Vienne inviarono a quelle d’Asia e Frigia, con il resoconto delle persecuzioni scatenate contro i cristiani negli anni 177 e 178. Il tutto era stato originato da un pogroom anticristiano, a cui il magistrato rispose con un’azione giudiziaria generalizzata. Contro le vittime, naturalmente, non contro gli aggressori. Blandina era una schiava che faceva parte del gruppo capeggiato dal vescovo Potino ed era stata arrestata assieme alla sua padrona. Condotta inizialmente nell’anfiteatro e appesa ad una croce, aveva pregato ad alta voce e le fiere l’aveva risparmiata. Successivamente, fu costretta ad assistere alla morte atroce dei suoi compagni, mentre lei superava il tormento della graticola ardente. Infine, rimasta sola, fu lasciata in balia della furia di un toro, che colpendola con le corna, la lanciò più volte in aria. Fu finita con la spada.

Lucien Louis Bunol nacque a Barentin (Francia), quarto di otto figli della famiglia di Zoé Pauline Pontif e Alfred Joseph Bunol. Seguendo la chiamata al sacerdozio, entrò a dodici anni entrò nel seminario minore di Rouen. L’11 luglio 1925 fu ordinato prete. Dopo aver insegnato per alcuni anni, sentendosi attratto dalla vita contemplativa, prese contatto, nel 1927, con il Carmelo di Havre e cominciò ad insistere con il suo vescovo perché gli permettesse di lasciare la diocesi per entrare nel Carmelo. Il che avvenne il 28 agosto 1931. Un anno più tardi emise i suoi primi voti, assumendo il nome di Jacques de Jesus. Nel 1934 il Consiglio Provinciale dell’Ordine gli affidò la direzione di un collegio fondato a Avon e il frate ci si dedicò anima e corpo. Il 3 settembre 1939 la Francia entrò in guerra e anche padre Jacques fu inviato al fronte. Fatto prigioniero il 18 giugno 1940, fu liberato a novembre. Nel gennaio del 41 la scuola riaprì. Nel 1943, d’accordo con i suoi superiori, accolse e nascose in collegio tre ragazzini ebrei per salvarli dalla deportazione ed entrò in contatto con la Resistenza per offrire una via di scampo a quanti fuggivano dalla deportazione dei civili decisa da Hitler per fornire mano d’opera schiava all’industria di guerra tedesca. Il 15 gennaio, in seguito ad una spiata, padre Jacques fu arrestato assieme ai tre ragazzi ebrei dalla Gestapo. (Le circostanze saranno narrate nel film di Louis Malle, Au revoir, les enfants). Rinchiuso nella prigione di Fontainebleau, fu trasferito qualche mese più tardi a Compiègne, poi nel campo di rappresaglia di Sarrebrück, infine a Mauthausen et a Gusen, ovunque esercitando nascostamente il suo apostolato. Il 5 maggio 1945, il campo di Gusen fu liberato dagli americani. Trasferito all’ospedale di Linz, in Austria, padre Jacques si spense dolcemente. Le sue ultime parole furono: “Negli ultimi momenti, lasciatemi solo”. Era il 2 giugno 1945. Nel memoriale di Yad Vashem, a Gerusalemme, Jacques Bunol è onorato dagli ebrei come “Giusto tra le nazioni”.

Giulio Facibeni era nato a Galeata, in provincia di Forlì, il 29 luglio 1884, in una famiglia poverissima di risorse, ma ricca di figli, ed era cresciuto, per dirla con le sue parole “con l’ansia degli studi e dell’impossibilità di compierli”. Dopo il liceo, nel 1904, si spostò a Firenze, dove s’iscrisse alla Facoltà di Lettere, lavorando nel contempo come assistente nel semiconvitto delle Scuole Pie fiorentine, per mantenersi agli studi. Fu qui che maturò la sua vocazione a prete. Ordinato nel 1907, per cinque anni si dedicò all’azione pastorale tra le figlie dei carcerati, nelle scuole parrocchiali serali e fra gli studenti medi. Nel 1912 fu mandato nella popolosa parrocchia di S. Stefano in Pane, nella zona industriale di Rifredi. Lasciò così l’insegnamento, decidendo anche di rinunciare alla laurea, ormai prossima, per dedicarsi anima e corpo al nuovo campo di apostolato. A Rifredi, nel primo dopoguerra creò l’Opera della divina Provvidenza Madonnina del Grappa: “una famiglia per chi non ha famiglia”, come diceva lui. Si trattava degli orfani che la guerra, l’inutile strage, aveva lasciato dietro di sé. Seppe amare quei ragazzi come un vero padre. Altre opere sarebbero seguite negli anni successivi. Durante la Seconda Guerra Mondiale profuse il suo impegno per salvare gli ebrei, vittime delle leggi razziste emanate dal regime fascista. Nel 1948, fu colpito dal morbo di Parkinson, che lo rese, per gli ultimi dieci anni di vita, sempre più dipendente dagli altri. Morì a Rifredi il 2 giugno 1958. Aperto, sulla sua scrivania, aveva il libro Esperienze Pastorali di don Lorenzo Milani, a cui aveva promesso una recensione ampiamente favorevole. Ma potè presentarla solamente lassù.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Tobia, cap.3, 1-11a. 16-17a; Salmo 25 ; Vangelo di Marco, cap.12, 18-27.

La preghiera del mercoledì è in comunione con tutti gli operatori di pace, quale ne sia la fede, l’ideale, la filosofia di vita che li guida.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura una citazione di Don Giulio Facibeni, tratta da un suo articolo su Il Focolare, del 18/2/1951, riportata nel libro di don Alfredo Nesi, “Il mio don Facibeni” (Edizioni de “Lo scambio – A troca”). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
L’aver perduto il senso dell’aldilà è la causa fondamentale di tanti traviamenti e stordimenti. Dal pensiero della fugacità delle cose che un giorno dovremo inesorabilmente lasciare, dal pensiero che soltanto le nostre azioni ci seguono e che la nostra eternità sarà di luce o di tenebre a seconda che esse qui in terra siano frutto dell’amore vero o dell’egoismo passionale e brutale, ne discende l’orientamento della nostra vita, la quale deve essere accettata come una missione ed un sacrificio. A ciascuno la Provvidenza assegna un posto, a ciascuno affida un compito. Chi diserta, chi non è fedele alla consegna, non solo tradisce se stesso, ma sottrae all’umanità quelle energie che Dio gli aveva dato e che egli – moltiplicate – doveva donare ai fratelli. Altri dovranno compiere quel lavoro che egli per indolenza o per malvagità ha trascurato. Il peccato non solo deturpa l’anima, ma anche avvelena le relazioni col prossimo e rende vuote di efficacia le azioni, anche quelle che sembrano degne di lode. Quando l’alito dell’eternità investe l’anima si sente vivo il bisogno di staccarsi da tutto e da tutti, e non per egoismo, ma unicamente per ridonare a ciascuna cosa e a ciascun affetto il posto che Dio ha assegnato loro nel piano della nostra vita. E allora si ama veramente Dio. In Lui tutto si unifica. Ogni pena ed ogni sacrificio è accettato con gioia: il dovere compiuto a qualunque costo senza agitarsi, ma con fermezza serena. (Don Giulio Facibeni, Il Focolare, 18/2/1951).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 02 Giugno 2021ultima modifica: 2021-06-02T22:03:58+02:00da fraternidade
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