Giorno per giorno – 30 Maggio 2021

Carissimi,
“Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo” (Mt 28, 16-19). Perché in Galilea e su quale monte?, si domandava stamattina nell’omelia padre Geraldo. Forse, per ricordare loro dove e come tutto era cominciato e, perciò, dove e come poterlo reincontrare. La Galilea era una regione disprezzata, la sua gente era chiamata il “popolo della terra”, per dirne l’ignoranza, ed essa era designata come “Galilea dei pagani”, a causa della dubbia religiosità dei suoi abitanti. Eppure, Gesù era proprio di lì, come del resto coloro che, iniziata la missione, avrebbe chiamato al suo seguito. Missione che avrebbe inaugurato su un monte, con l’annuncio delle beatitudini del Regno. Dunque, era forse proprio su quel monte che aveva dato loro appuntamento, una volta risorto. Essi, dice il vangelo, “lo videro e gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano”. Dubitavano di che? Ciò di cui dubitiamo ancora, a volte, anche noi. Che, cioè, lui fosse davvero il volto dell’invisibile Dio, l’Abbà, così diverso da come l’avevano appreso, Padrone di tutto, Giudice e Vendicatore, mentre lui si era mostrato al loro servizio, pastore buono, pieno di cure per gli ultimi e più deboli, amante di amici e nemici, pronto a perdonare sempre, disposto a perdere se stesso per salvare gli altri. Questo rivoluzionava il senso della vita e la maniera di stare al mondo. Come credere a cuor leggero una verità che contraddiceva tutto ciò che si era sperimentato fino al momento in cui lo si era incontrato e seguito? E, tuttavia, nonostante il dubbio che leggeva nello sguardo di alcuni, Gesù, lui, di dubbi non ne ebbe. E disse (e dice) a tutti: andate, fate discepoli (non “ammaestrate”, come è reso dalla vostra traduzione), fate discepoli tutte le nazioni, tutti i pagani, non per convertirli a una nuova religione, ma immergendoli (battezzandoli) nell’amore del Padre per tutti i suoi figli e figlie, resi uno nel Figlio, fratelli e sorelle tra di loro, in cammino, nel rispetto della ricchezza e varietà delle loro culture, verso un mondo altro, che sia specchio di quella comunione divina, che è origine e destinazione finale di tutto.

Oggi, prima domenica dopo Pentecoste, si celebra la Solennità della Santissima Trinità, che per noi è la prima e la migliore comunità. Benché ad essa sia rivolto ogni culto e diretta ogni preghiera nella Chiesa, a partire dal 1334 fu deciso di istituire una festa specifica, dedicata alla contemplazione e all’esaltazione del mistero divino così come trova espressione nella fede cristiana.

I testi che la liturgia di questa Solennità propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro del Deuteronomio, cap.4,32-34.39-40; Salmo 33; Lettera ai Romani, cap.8, 14-17; Vangelo di Matteo, cap.28, 16-20.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le Chiese e comunità cristiane.

Oggi facciamo memoria di Emmelia e Basilio, coniugi e genitori secondo il cuore di Dio; di Girolamo di Praga, riformatore della Chiesa e martire; e dei Martiri ortodossi, ebrei e rom del regime ustascia.

Emmelia e Basilio erano una coppia della Cappadocia (nell’attuale Turchia). Durante la persecuzione, iniziata con Diocleziano e proseguita sotto l’imperatore d’Oriente, Galerio Massimino, (305-311), la più dura che il cristianesimo si trovò ad affrontare, per mantenersi fedeli al Vangelo del Regno, dovettero lasciar la loro terra, provando la durezza dell’esilio, la solitudine e le molte difficoltà legate a questa condizione. Esempio di dedizione reciproca, di coerenza e fedeltà, diedero vita a dieci figli, tra i quali san Basilio il Grande, san Gregorio di Nissa, san Pietro di Sebaste, santa Macrina (chiamata con questo nome in omaggio alla nonna, anch’essa santa), ai quali, morendo (verso l’anno 370), lasciarono in eredità la ricchezza della loro testimonianza di fede.

Girolamo nacque a Praga verso il 1370. Compì i suoi studi universitari nella cittá natale, dove subì l’influenza del riformatore Jan Hus. Recatosi, nel 1398 a Oxford, in Inghilterra, rimase colpito dagli insegnamenti di John Wicliffe e se ne fece sostenitore. Insegnò in molte città, nelle università di Parigi, Colonia, Heidelberg, Vienna, Cracovia, ma da tutte fu allontanato per i sospetti di eresia che pesavano su di lui, e, più ancora, per il suo zelo nel denunciare la corruzione dilagante nella Chiesa. Nel 1412, organizzò assieme a Hus una protesta contro la decisione dell’antipapa Giovanni XXIII di finanziare la guerra attraverso la vendita delle indulgenze. Hus e i suoi seguaci furono raggiunti dalla scomunica dell’antipapa. Nel 1415, Girolamo si recò al Concilio di Costanza per difendere Hus, dalle accuse di eresia, mosse contro di lui dai teologi Pietro d’Ailly e Jean Gerson. Difensore della chiesa invisibile dei credenti, che costituisce, assai più di quella istituzionale, il vero Corpo mistico di Cristo, critico feroce del lusso delle gerarchie e delle ingiustizie sociali, fautore delle teorie di Wyclif sulla paritá tra clero e laicato, e assertore della necessità di predicare nelle lingue nazionali, Hus fu condannato al rogo. Gerolamo, allora, si decise a fuggire. Giunto però in Baviera, fu riconosciuto, arrestato e inviato nuovamente a Costanza. Processato, in un primo momento ritrattò le tesi che aveva condiviso con l’amico e maestro, ma, quando, il 16 Maggio 1416, fu portato nuovamente davanti al giudice, dichiarò di averlo fatto solo per paura della morte. Il processo si concluse con la sua condanna a morte e Girolamo fu bruciato sul rogo. L’umanista Poggio Bracciolini presente in quei giorni a Costanza, scrisse ad un amico dell’esecuzione: “Quando giunse nel luogo del supplizio, si spogliò da solo dei vestiti e, inginocchiatosi, salutò il palo al quale fu poi legato con molte funi e fu stretto, nudo, con una catena. Dopo che gli fu posta intorno al petto e alle reni molta legna, mista a paglia, e fu appiccato il fuoco, Girolamo cominciò a cantare un certo inno, che fu interrotto dal fumo e dalle fiamme”. Era il 30 Maggio 1416.

Nel Maggio 1941, subito dopo la creazione del cosiddetto “Stato libero di Croazia”, ad opera del leader ustascia Ante Pavelic, che godeva dell’appoggio di Hitler e Mussolini, ebbe inizio nel Paese la sistematica eliminazione delle minoranze etniche e religiose, oltre che degli oppositori politici. Si calcola che furono circa 800.000 i serbi eliminati durante la seconda guerra mondiale. Tra essi 6 vescovi, più di 300 preti e 222 religiosi. Con loro, ricevettero lo stesso trattamento cinquantamila ebrei croati e ottantamila rom. Furono anche distrutte tutte le sinagoghe e circa 300 chiese ortodose presenti sul territorio. Tale persecuzione mirava alla completa eliminazione della presenza ortodossa (oltre che di quella ebrea e gitana) in quelle regioni tradizionalmente cattoliche. Questo è ciò che potrà forse in qualche modo spiegare il silenzio, quando non l’esplicito assenso e, più di qualche volta, tragicamente, la diretta complicità, che caratterizzarono l’atteggiamento dei cattolici, dei loro preti e di gran parte della gerarchia, di fronte alle deportazioni, le torture e i massacri. Una rivista ortodossa, facendone memoria, così scrive: “Dobbiamo fornire gli orribili dettagli di queste atrocità? I ventri di donne gravide furono squarciati; furono arrostiti uomini su graticole da animali (vi furono casi in cui alcuni furono forzati a mangiare le membra arrostite dei propri familiari). Furono compiuti maligni esperimenti medici. Vi furono persone impalate, segate in due, occhi cavati dalle orbite. I cuori di vittime innocenti furono strappati e mangiati dai loro avversari. Morti lente e agonizzanti potevano durare per settimane intere. Ogni tipo di tortura che il diavolo poteva instillare nei confronti di altri esseri umani si manifestò in pieno in quegli anni di tribolazione”. La memoria di tali vicende dovrebbe mettere in guardia i cristiani dalle manipolazioni e strumentalizzazioni di cui il Vangelo di Gesù può essere fatto oggetto da parte di movimenti e di ideologie, che hanno tutto l’interesse a fare di esso, invece che l’Evento con cui Dio abbraccia il mondo intero, la semplice espressione di un’identità e di una cultura che, per giunta, fomenta il disprezzo e l’odio per l’altro e teorizza, invece che l’incontro e il dialogo, lo scontro delle civiltà, in vista del proprio dominio.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura una citazione del Card. Carlo Maria Martini, sul tema della Trinità. Tratta dal suo libro “Esercizi spirituali. Testi inediti” (EDB), è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
C’è uno studio molto interessante di un autore tedesco, intitolato Croce e Trinità, in cui si cerca di mostrare come la Trinità si esprima nella croce e quasi non possa esprimersi che nella croce. Io dico più semplicemente così: umiltà, porta della Trinità. Perché Gesù si presenta così umile, indifeso e quindi perdente in questo mondo? Certamente, per un motivo ascetico: Gesù sa che l’orgoglio ha rovinato l’uomo e quindi l’uomo va rifatto passando per la via dell’umiltà. C’è un motivo anche salvifico: Gesù offre se stesso con amore per la salvezza dell’uomo caduto a causa della superbia. Ma c’è pure un motivo teologico: in questo modo Gesù ci fa capire qualcosa della Trinità. Per questo le religioni che alla fine esaltano il successo mondano non riescono ad ammettere l’idea del Dio trinitario. Mentre invece l’umiltà di Gesù ci apre qualche spiraglio per intuire qualcosa della Trinità, dove, come sappiamo, per quanto lo si possa esprimere con parole umane, ogni persona divina è tutta in relazione all’altra. Nessuno si chiude in sé, ma tutto si dona all’altro. È quell’atteggiamento che noi umanamente chiamiamo amore: uscire da se stessi per donarsi tutto all’altro. È umiltà, svuotamento di se stessi, perché l’altro sia. Per questo, Dio-Amore è rappresentato al meglio dal Gesù umiliato, povero, sofferente, crocifisso. Il crocifisso è perfetta rivelazione del Padre e della Trinità. Ecco, questo certamente noi lo diciamo un po’ con parole retoriche. Ma la via cristiana è il penetrare nella preghiera e nell’esperienza concreta questa verità. Se questo è vero, l’umiltà di Gesù è dunque porta della Trinità. Ne deriva allora anche un nuovo motivo antropologico dell’agire di Gesù, quello che il Vaticano II esprime con quelle parole che poi riprende Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor hominis: l’uomo si realizza nel dono di sé. Non nel vincere se stesso mettendosi al centro, ma nello spogliarsi per gli altri, nel dono di sé agli altri. E quindi umiltà e sacrificio sono la via alla vera umanità e alla vera pace. (Carlo Maria Martini, Esercizi spirituali. Testi inediti).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 30 Maggio 2021ultima modifica: 2021-05-30T22:42:02+02:00da fraternidade
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