Giorno per giorno – 28 Maggio 2021

Carissimi,
“Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni? Voi invece ne avete fatto un covo di ladri” (Mc 11, 17). Lasciata alle spalle la città di Gerico, Gesù con i suoi giunge a Gerusalemme, dove passerà i suoi ultimi giorni di vita, ritirandosi a riposare la notte nella vicina Betania. Il vangelo di oggi ci presentava il suo secondo giorno nella città santa, quando, “entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio” (Mc 11, 15-16). Ora, la denuncia che Gesù fece seguire al gesto si riferiva certo in primo luogo al tempio di Gerusalemme, ma l’evangelista nel riportarla sa bene come essa si adatti ad ogni situazione, ad ogni altro tempio, e al tempio più vero di Dio che è la terra intera nella varietà dei popoli che la abitano. Dove dovrebbe sempre risuonare la salvezza con cui Dio si destina a tutti, ma che è da sempre resa covo di ladri e di assassini. Mercato di risorse, di merci e di persone. Spesso in nome di Dio. E del Dio cristiano. In tre secoli di storia della schiavitù, in concomitanza dello sterminio di milioni di aborigeni delle Americhe, sessanta milioni di persone furono strappate dalle terre della madre Africa per farne schiavi, ad opera via via del Regno cattolico del Portogallo, del Regno calvinista di Olanda, del Regno anglicano d’Inghilterra che, nel frattempo, si contendevano il titolo di fedeltà all’Evangelo. Solo quindici milioni sarebbero giunti a destinazione, per costruire con il loro sudore e sangue il benessere di una minoranza bianca e cristiana. Senza che a tutt’oggi sia stato ai loro discendenti riconosciuto il debito maturato nei loro confronti, che, anzi, essi continuano a subirne in vario modo le conseguenze in termini drammatici. Ne sappiamo qualcosa qui in Brasile. Giovanni Paolo II, in visita al Senegal, nel 1992, chiese perdono a Dio per questo “olocausto sconosciuto”, a cui “parteciparono persone battezzate che non vissero secondo la loro fede”. È uno scandalo che dura fino ad oggi, quando abbiamo paesi che si dicono cristiani che continuano a saccheggiare, sfruttare, distruggere terre e popolazioni del Sud del mondo. Anch’esse tempio del Dio vivente, sconsacrato dai loro traffici e ruberie. E c’è chi ne è complice, o tace e si gira dall’altra parte. Causa dell’ateismo di molti (cf Rm 2, 24).

Il calendario ci porta la memoria di Andrea, Folle in Cristo, e di Rabí’a al-‘Adawíyya, mistica islamica, “testimone dell’amore di Dio”.

Secondo il suo agiografo, tale Niceforo, prete di Santa Sofia, a Costantinopoli, Andrea era uno schiavo originario della Scizia, che il suo stesso padrone aveva istruito per farne il suo segretario. Improvvisamente, però, il giovane cominciò a manifestare evidenti sintomi di follia, così il padrone lo fece rinchiudere e incatenare nei pressi della chiesa di Santa Anastasia, ma invano. Ebbe così inizio l’avventura del folle in Cristo più amato di Costantinopoli. Da quel momento, la sua vita sarà la simulazione di un degrado esteriore, volto a fargli occupare l’ultimo posto nel consesso umano. Gratificato di numerose visioni, affascinato dal futuro ultimo dell’uomo, Andrea, con la sua vita e con i suoi dialoghi, esprimeva la sua attesa del Regno e il giudizio che sovrasta la storia. Spesso, suo interlocutore era Epifanio, uomo di profonda saggezza, che fu in seguito patriarca di Costantinopoli (520-535). A differenza di Simone il Folle, che aveva vissuto un’esperienza analoga alla sua ad Emesa (l’attuale Homs, in Siria), Andrea non simulava la follia per smascherare i peccati di quanti incontrava, ma per manifestare l’esistenza di un mondo invisibile e di una sapienza “altra”. Questa è la ragione per cui è tanto amato dai monaci bizantini, che gli dedicarono una miriade di piccole chiese nei luoghi più impensabili. Nella Chiesa russa, la memoria di Andrea è legata alla festa della Protezione della Madre di Dio, che egli aveva profetizzato in una delle sue più celebri visioni.

Rabí‘a era nata in una povera famiglia della regione di Bassora, nell’attuale Iraq, all’inizio del VIII secolo. Ancora giovanissima, a causa di una carestia, era stata venduta schiava ad un ricco signore che tuttavia, impressionato dai doni spirituali di cui ella godeva, la rimandò libera. E, libera, lei volle restare, scegliendosi schiava del suo Signore. Così, a chi le faceva notare l’obbligatorietà del matrimonio, soleva rispondere: Hai ragione, il matrimonio è obbligatorio, almeno per chi è libero di scegliere. Ma io appartengo a Dio. È a Lui, dunque, che bisogna chiedere la mia mano. E nessuno sapeva come arrivare da Lui a chiedergliela. Rabí‘a visse per alcuni anni come eremita nel deserto, poi si stabilì a Bassora, dove condusse una vita in assoluta povertà, abitando in una capanna di giunchi in compagnia di una ancella, ‘Abdia, che fece conoscere ai contemporanei e ai posteri parole e vita della santa. Un giorno i suoi devoti le chiesero se amasse il Profeta. Lei rispose: Certo che lo amo, e molto, ma l’amore di Dio non mi lascia il tempo di amare il Profeta. Le domandarono allora: Odi Satana? Certo che lo odio, ma l’amore di Dio non mi permette di occupare il mio tempo ad odiarlo. Un giorno fu vista correre per la strada portando una torcia accesa in una mano e un secchio d’acqua nell’altra. Quando le chiesero dove corresse, ella rispose: “Voglio incendiare il paradiso e spegnere l’inferno perché i credenti adorino Dio non per la speranza nel paradiso o per la paura dell’inferno, ma solo per amore”. Già, liberi. Per amare. Morí nell’ 801, più che ottantenne, a Gerusalemme. Fu sepolta nei pressi della chiesa cristiana dell’Ascensione, sul Monte degli Ulivi.

I testi che la liturgia propone oggi alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro del Siracide, cap.44,1.9-13; Salmo 149; Vangelo di Marco, cap.11,11-26.

La preghiera del venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

Bene, per stasera è tutto. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un fioretto della vita di Rabi‘a al-‘Adawíyya. Lo troviamo in rete ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Dio, l’Onnipotente, inviò una persona molto santa a Rabi‘a . Alcuni dicono fosse Hasan al-Basri, ma c’è qualche ragionevole dubbio si sia trattato effettivamente di lui, dato che Hasan al-Basri era nato a al-Madina nell’anno 21 AH / 642 d.C. da una serva della moglie del Profeta (“preghiere e pace su di lui”), Umm Salamah […] ed era morto nel 110 A.H, quando Rabi‘a doveva avere undici anni, ed era perciò appena giunta a Baghdad come schiava del suo padrone. Comunque, nonostante questa discrepanza di date, si racconta sia stato lui (o chi per lui) a chiedere a Rabi‘a : “Vuoi che ci sposiamo?”. Al che lei rispose: “Il vincolo del matrimonio è per coloro che hanno l’essere. Ma qui l’essere è scomparso perché io sono diventata come niente a me stessa, ed esisto solo attraverso Dio, dato che appartengo interamente a Lui, e vivo all’ombra del Suo controllo. Devi chiedere la mia mano a Lui, e non a me”. Disse allora Hasan: “Come hai trovato questo segreto, Rabi‘a ?”. Lei rispose: “Ho perso in Lui tutte le cose trovate”. Hasan disse: “Come hai fatto a conoscerlo?”. Rispose lei: “Tu conosci il come delle cose, io so solo l’assenza di come”. Questo, perché Rabi‘a aveva udito la Voce del suo Amato, che era Dio e nessun altro che Lui, così da non aver bisogno di alcun marito terreno, perché l’unico vero matrimonio per lei poteva essere solo con Dio stesso. (Roses of Islam: Rabi‘a Al-Adawiyah).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 28 Maggio 2021ultima modifica: 2021-05-28T22:38:43+02:00da fraternidade
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