Giorno per giorno – 06 Maggio 2021

Carissimi,
“Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15, 9-11). C’è un legame profondo, ci dicevamo stamattina, tra la pratica dell’amore e la gioia, al punto che l’evangelista pone queste parole proprio nel discorso d’addio di Gesù, che, per logica, avrebbe dovuto esprimere il massimo di turbamento e di tristezza. Poco fa, un giovane amico di qui ci scriveva: “Ci sono giorni in cui ci si sente così inutili che sembra che niente abbia senso. Oggi è un giorno di questi”. Cosa lasceremo prevalere? Questa sensazione o la sotterranea gioia di saperci infinitamente amati e trovare l’animo per comunicarla intorno a noi, ben concretamente, nella cura di chi ci è affidato, nella nostra famiglia e fuori? Proprio in questi giorni abbiamo ripreso in mano il “Diario di Raissa”, che una cara amica di Firenze ci aveva fatto avere qualche anno fa. E vi abbiamo trovato una bella citazione che sembra fare il caso nostro: “Credimi, Rabbi Mosè, quando, a mezzanotte, ci lamentiamo in una profonda tristezza, e le lacrime scorrono dai nostri occhi, è, nonostante tutto, nella gioia. Questa è la vera disposizione del Hassid: piangere e sorridere nello stesso tempo, come i bambini”. Forse anche Gesù, quella notte, piangeva e sorrideva. Già, anche la vite (dato che si tratta ancora del discorso della vite), in questa stagione, dopo la potatura, piange. Ma quali frutti ne verranno!

Oggi è memoria di padre Giulio Bevilacqua, apostolo tra i giovani, i lavoratori e i poveri; di padre Esteban Gumucio Vives, prete al servizio del Regno; e dei Venticinque Martiri ebrei di Palma di Maiorca, colpevoli di professare la loro fede. Che era la fede di Gesù.

Giulio Bevilacqua era nato a Isola della Scala (Verona), il 14 settembre 1881, ultimo dei dieci figli di Carlotta Oliari e di Matteo, commercianti provenienti dalla trentina Val di Ledro. Trasferitosi con la famiglia a Verona, prese parte attiva alla vita della locale comunità cristiana e alle lotte sociali del tempo. Dopo essersi laureato a Lovanio in Belgio con una tesi sulla legislazione operaia in Italia, entrò tra i Filippini, a Brescia, e fu ordinato sacerdote nel 1908. Prese a svolgere la sua attività di apostolato soprattutto tra i lavoratori e gli studenti, insegnando col Vangelo la consapevolezza dei propri diritti di uomini e di cittadini. Inviato al fronte durante la Grande Guerra, al servizio di soccorso ai feriti, ne fu profondamente segnato. Definì la guerra: “crisi di dignità, notte di miseria umana, follia e abisso di dolori, è un inferno inutile”. La denuncia più dura l’avrebbe riservata, solo pochi anni più tardi, al fascismo, denunciato come dottrina che stravolge ogni valore, pratica violenta, dittatura civile, e forza anticristiana, con cui è impossibile venire a patti. Per sfuggire al fascismo, si rifugiò in Vaticano, ove rimase dal 1928 al 1932, stringendo una profonda amicizia con mons. Montini, il futuro Paolo VI. All’entrata dell’Italia in guerra, nel 1940, pur denunciando la scelta sciagurata del Paese come “apostasia da Cristo” decise di partire per il fronte, come cappellano, per condividere le condizioni dei suoi giovani. Tornato a Brescia, alla fine della guerra, si dedicò alla predicazione e all’approfondimento della pastorale liturgica, ma soprattutto alla cura pastorale dei più poveri nel suo quartiere di periferia. Chiamato a Roma per far parte della Commissione preparatoria del Concilio Vaticano II, fu creato, nel 1965, cardinale. Accettò a condizione di poter restare come parroco tra la sua gente. Il Venerdì santo di quello stesso anno si sentì male in chiesa. Celebrò l’ultima messa con i suoi fedeli nel giorno di Pasqua. Morì il 6 maggio 1965, mentre pregava la Salve Regina.

Joaquín Benedicto (tale il nome al battesimo) era nato il 3 settembre 1914 a Santiago del Cile, nella famiglia di Amalia Vives e di Rafael Luis Gumucio. Entrato diciottenne nel noviziato della Congregazione dei Sacri Cuori a Los Peroles, fece, un anno più tardi, a Valparaiso, la sua prima professione temporanea, assumendo il nome religioso di Esteban. Fu ordinato presbitero nel 1938. Durante la sua vita fu professore nei collegi della sua Congregazione, maestro dei novizi, superiore provinciale, predicatore di ritiri ed esercizi spirituali un po’ ovunque, consigliere del movimento “Encontro Matrimonial” e, segretamente, poeta. Fu il fondatore e per molti anni parroco della parrocchia dei santi Pietro e Paolo nel quartiere operaio de La Granja, che andava sorgendo all’inizio degli anni sessanta nella periferia sud di Santiago, e dove ritornò all’inizio degli anni novanta. Nel maggio dell’anno 2000, gli fu diagnosticato un tumore al pancreas, che lentamente consumò il suo corpo, mentre ne faceva risaltare la qualità interiore. Il 6 maggio 2001, nella domenica del Buon Pastore, P. Esteban incontrò l’abbraccio del Padre. Lasciò scritto per i suoi confratelli: “Che sempre tra fratelli ci amiamo davvero, senza pretendere mai di averla vinta, ma restando piuttosto umili servitori gli uni degli altri, accogliendo ciascuno nella sua originalità e con i suoi limiti. Non importa che in futuro si resti in pochi fratelli, l’importante è che lo siamo davvero nel Cuore di Gesù, con una cordialità semplice come quella che possiede il cuore della Madre di Gesù. Mi piacerebbe che il servizio preferenziale ai poveri e la nostra povertà per Gesù non ci vedesse mai soddisfatti, come chi prende bei voti a scuola. La povertà non è per conseguire primati, ma per centrarci in noi stessi. Che i poveri, allora, ci addolorino e che noi ci lasciamo ammaestrare da loro. Sogno una congregazione gioiosa e fiduciosa in Dio, qualunque cosa accada: la grande lezione che la nostra comunione nella missione deve regalare alla chiesa e al mondo è di testimoniare che la cosa più grande e la migliore per l’esistenza del mondo è vivere come figli gratuitamente amati dal Padre, in Gesù, con lo Spirito”.

Il 6 Maggio 1691 fu scoperta a Palma di Maiorca, nelle Isole Baleari, una sinagoga segreta. Nell’autodafé che ne seguì furono messe a morte 25 persone. L’Autodafé (espressione che, in portoghese significa “Atto della fede”) consisteva nella solenne celebrazione della Messa che poneva termine ai processi per eresia o apostasia da parte dell’Inquisizione cattolica. Rappresentava anche l’ultima occasione per i “colpevoli” di proclamare la fede, da essi (se questi erano gli esiti, con qualche ragione) rinnegata, prima di essere consegnati alla potestà secolare, cui era demandata l’esecuzione della condanna a morte, in pubblica piazza. Dei condannati di Palma di Maiorca, ventidue furono garrotati prima di essere bruciati, mentre Rafael Vails, la guida spirituale del gruppo, il suo discepolo Rafael Benito Terongi e la sorella di quest’ultimo, Catalina Terongi, furono bruciati vivi.

I testi che la liturgia odierna propone oggi alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.15, 7-21; Salmo 96; Vangelo di Giovanni, cap.15, 9-11.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

Noi si è saputo solo poco fa della strage avvenuta stamattina nel corso di un’operazione della polizia di Rio de Janeiro, nella favela di Jacarezinho. La Corte Suprema Federale aveva proibito il 5 giugno del 2020, a causa dell pandemia, le invasioni di polizia nelle favelas, ma il governo di Rio non si è mai attenuto alla disposizione. Questa operazione è cominciata nella mattinata con l’invio di duecento agenti nella comunità, per procedere all’esecuzione di 21 mandati d’arresto. Il tutto si è concluso con la morte di un poliziotto e [per il momento] di ventiquattro abitanti del quartiere, solo alcuni dei quali facenti parte del gruppo di ricercati. L’entità del massacro (il più sanguinoso nella storia recente, che non scuote però più di tanto l’opinione benpensante, dato che si tratta di pobres, negros e favelados) parrebbe configurarlo come un’azione di rappresaglia per la morte dell’agente, ma non si esclude trattarsi di un’operazione volta a estendere l’area di azione delle milizie che contendono alle formazioni del narcotraffico il controllo delle favelas. Tali milizie sono formate da agenti o ex agenti di polizia civile, polizia militare, forze armate, assieme a criminali da questi reclutati, trafficanti, ex detenuti, con l’appoggio di politici locali (inclusa la famiglia del presidente). Difficile che possa essere fatta giustizia, salvo che l’inchiesta venga affidata alla giustizia federale.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura una poesia di P. Esteban Gumucio Vives, dal titolo “Aún no me llames Dios”. La troviamo nella raccolta che ha come titolo “Poemas” (Congregación de los Sagrados Corazones), ed è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Non chiamarmi ancora Dio, aspetta. / Resisti ancora un po’ con te. / Forse una stanza silenziosa, / un sentiero, un angolo tranquillo, / e taci, amico, / non chiamarmi ancora Dio. / Ascolta, osserva, aspetta e io entrerò / al buio, forse, / leggero come l’aria / in passo silenzioso. / Non chiamarmi ancora Dio, aspetta. / Lascia che io ti vesta questi vuoti / di abitudini senza nome, / di soli inizi e tentativi, / di altezze e distanze, / di acque infinite e pure. / Non chiamarmi ancora Dio. / Avvicina il tuo orecchio alla mia parola / e ascolterai tu stesso / nella voce umana del Figlio, / le mie campane, le mie campane. // (P. Esteban Gumucio Vives, Aún no me llames Dios).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 06 Maggio 2021ultima modifica: 2021-05-06T22:09:23+02:00da fraternidade
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