Giorno per giorno – 19 Febbraio 2021

Carissimi,
“Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno” (Mt 9, 15). Il digiuno non può ridursi a pratica rituale, per quanto benefici possano essere i suoi effetti. Ha senso solo se è riflesso della vita reale. Se, perciò, dal punto di vista dell’Evangelo, riflette il venir meno della presenza dello sposo, che noi sappiamo essere Gesù e il suo significato. Ma quando lo sposo è tolto? Ovvio che, per la comunità dei discepoli, il primo e più immediato riferimento è dato dall’evento della croce. Ma non si limita a questo, c’è infatti un suo ripetersi nella storia, dato dall’identificarsi solidale del Crocifisso con tutte le sofferenze dei suoi fratelli e sorelle in umanità, che disegnano il venir meno della promessa di Dio di una vita sotto il segno della sua benedizione. In questo caso ha senso il digiunare, che non consiste però nell’astenersi da cibo o bevanda, quanto piuttosto, secondo le parole del profeta, nello “sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo… nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne” (Is 58, 6-7). Questo è il digiuno che ci chiede il Signore, il cui risultato coincide con il ritorno dello sposo. Niente male, come programma per la quaresima!

Oggi ricordiamo Sirio Politi, preteoperaio; José Antônio Pereira Ibiapina, apostolo del Nordeste brasiliano, e Rabbi Elimelech di Lisensk, mistico ebreo.

Sirio Politi era nato il 1º febbraio 1920 a Capezzano Pianore, in quel di Lucca, da una famiglia povera e a quattordici anni era entrato in seminario. Ordinato prete nel 1943, divenne due anni più tardi parroco di Bargecchia. E ci restò una decina d’anni, finché lo Spirito gli deve aver sussurrato: ehi, amico, datti una mossa! E lui, era il 1956, scese a valle, con una idea: “essere uno di loro”. Loro erano gli operai. I tempi, poi, mica si scherzava. Per il divorzio maturato nel tempo tra la chiesa e la classe operaia e il clima di sospetto e le reciproche diffidenze che ne erano scaturite. Lui comunque sarebbe riuscito ad abbattere il muro e, condividendone la fatica e le lotte, a conquistare l’amicizia, la lealtà e la fedeltà dei nuovi compagni. Durò solo tre anni, per via della durezza di testa e di cuore che Gesù da sempre rimprovera alla sua chiesa. Per restare prete, dovette lasciare la fabbrica. Di quel momento scriverà: “Mi si scavò nell’anima un vuoto spaventoso, come morire, e da allora mi sono sentito finito, morto. La mia Chiesa mi ha distrutto. Proprio Lei”. Continuò invece a vivere, dove aveva preso ad abitare, alla Darsena di Viareggio, non più operaio, ma scaricatore di porto, per i successivi sei anni. Dal 1965 creò con altri preti operai, uomini e donne, una nuova esperienza comunitaria alla periferia della città, tornando in Darsena nei primi anni settanta. Lì si impegnerà sempre più sul fronte della pace, della nonviolenza, della lotta antinucleare. Dall’estate 1986, l’ultima sfida, quella della malattia che lo porterà alla morte, il 19 febbraio 1988.

José Antônio Pereira Ibiapina nacque il 5 agosto 1806 a Sobral, nello Stato di Ceará. Ancora giovane, desiderando diventare prete, si era trasferito a Olinda (Pernambuco), per frequentare il seminario, ma una serie di tragedie familiari (la morte della madre, l’omicidio del fratello maggiore e la fucilazione del padre per motivi politici) lo costrinsero a fare ritorno a casa per prendersi cura della famiglia. Risolti i problemi più urgenti, fece ritorno nel Pernambuco con due delle sorelle minori. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, laureandosi nel 1832. Negli anni successivi fu prima magistrato, poi deputato e infine avvocato. Ed ebbe sempre a cuore la causa dei più poveri e sfruttati. Nel 1850, la svolta decisiva della sua vita: si disfece di tutti i suoi beni e andò ad abitare in una casetta in un bairro di Recife, dove passò tre anni a studiare, pregare, meditare, vivendo in povertà. Il 26 luglio 1853, Ibiapina veniva ordinato sacerdote. Insegnò per qualche tempo in seminario, poi con il permesso del suo vescovo, cominciò a viaggiare attraverso tutto il Nordeste brasiliano, realizzando missioni popolari, coscientizzando e organizzando la popolazione, costruendo chiese, ospedali, bacini idrici, e soprattutto moltissime case di carità, dove l’infanzia abbandonata potesse crescere, studiare e apprendere una professione. Padre Ibiapina morì a Santa Fé, nello stato di Paraiba, il 19 febbraio 1883.

Rabbi Elimelech, nato in Galizia (Polonia) nel 1717, era, con il fratello maggiore Sussja, figlio del Rabbi Eliezer Lipman e di sua moglie Miroush, persone conosciute per la loro bontà e generosità. Insieme, i due fratelli, in gioventù si diedero ad una vita di peregrinazioni senza meta. Poi, le loro strade si divisero: Sussja continuò ad essere l’inquieto ed estatico “folle di Dio”, e Elimelech, alla scomparsa di Rabbi Dov Bär, il Grande Magghid, divenne capo della comunità chassidica, facendosi conoscere per la “conoscenza intuitiva delle persone che lo avvicinavano, delle loro manchevolezze e delle loro pene, così come dei mezzi per guarirle”. Nella memoria del popolo, rimase così presente come “il medico delle anime, l’esorcizzatore dei demoni, il consigliere, la guida e il taumaturgo”. Rabbi Elimelech morì a Lisensk il 21 Adar I 5546 (coincidente, quell’anno, con 19 febbraio 1786), lasciando tre figli, Rabbi Elazar di Lisensk, Rabbi Lipa Eliezer di Chemelnick, Rabbi Yaakov di Maglanitza e due figlie, Esther Etil e Mirish.

I testi che la liturgia del giorno propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Isaia, cap,58, 1-9; Salmo 51; Vangelo di Matteo, cap.9, 14-15.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e ricco in misericordia.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano di Sirio Politi, tratto dal suo articolo “La politica dell’utopia”, apparso in “Lotta come amore” del dicembre 1987. Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
È indiscutibile che ogni valore può e deve essere tradotto, concretizzato, reso storia dalla politica. Perché politica non è propria del Palazzo e tanto meno strumento raffinato o violento di dominio, d’oppressione, di sfruttamento… Politico è anche e soprattutto ricerca di rendere vita vissuta, individuale e collettiva, i valori essenziali, costitutivi di questo mistero che è ogni uomo e la collettività intera. È politica dell’utopia raccogliere l’infinito nel palmo della mano, rendere il mistero poesia, dilatare la visione oltre l’orizzonte, il potersi perdere nel dolce labirinto dell’amore… È politica dell’utopia vivere concretamente lo spazio fra la nascita e la morte con un’avventura che non sia camminare fra le pietre, ma anche e particolarmente fra le stelle… È utopia se resa concretezza dalla forza e dalla politica, che può svecchiare la decrepitezza della storia, logorata e dissanguata, in novità di primavera del mondo dove al posto dei missili crescono vigorose le sequoie, come cantava Tagore. Non è un sognare l’impossibile, ma semplicemente l’immaginario del come tutto dovrebbe essere per rispondere alla propria verità e percepire la vera identità delle cose. L’utopia in questi nostri tempi è lo sfrondamento, la liberazione, la purificazione delle incrostazioni (è parola alquanto benevola) che il cosiddetto progresso, economico, scientifico, tecnologico ha infiltrato nell’orbe terraqueo e specialmente nel tessuto culturale dell’uomo, dei popoli, delle civiltà. È un fatto però che l’attacco frontale contro questa alienazione che ormai imperversa come normalità di storia, è impensabile. E di dove potrebbero sopravvivere le forze (ideali, culturali, individuali, collettive?) per rovesciare il cemento armato e fare posto alla fioritura dei prati. Dai quattro venti del mondo non si intravede di dove possa spuntare la Speranza. I tempi delle grandi ventate storiche, delle emigrazioni di civiltà, sono definitivamente tramontati. Soltanto l’utopia, questa traslazione di valori non esistenti in una volontà e quindi in una ricerca appassionata, di consistenza di traduzione del concreto, nella storia, nella cultura, nell’impossibile, forse perfino nell’assurdo, è forza capace di rovesciare i destini dell’umanità e smuovere e sgretolare quell’imprigionamento soffocante dell’espansività del vivere umano che la civiltà del profitto, del finanziario, del potere politico, culturale, religioso ecc. sempre più stringe nella sua morsa di disumanizzazione impietosa e progressiva. (Sirio Politi, La politica dell’utopia).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 19 Febbraio 2021ultima modifica: 2021-02-19T22:31:39+01:00da fraternidade
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