Giorno per giorno – 26 Gennaio 2021

Carissimi,
“Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe. Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi” (Lc 10, 1-3). Quali fossero “questi fatti” in riferimento ai quali si apriva il vangelo di oggi, bisogna scoprirlo andandoci a leggere il brano che lo precede, che è quello che descrive i potenziali ostacoli che si frappongono alla sequela del Signore (cf Lc 9, 57-62). Una volta disposti a superarli, almeno in linea di principio – se no, ci conviene andarcene per la nostra strada – ecco che Gesù è in grado di disegnarci come discepoli (settantadue era il numero dei popoli della Terra, per la geografia del tempo) e mandarci “a due a due” (la più piccola comunità, in cui testimoniare che l’amore è possibile, fosse anche tra fratelli diversi e litigiosi) a precederlo nei luoghi dove giungerà poi lui, con la sua grazia. E come prima cosa ci chiede di pregare perche si moltiplichino gli operai inviati alla messe ormai matura (l’umanità pronta) per ricevere la buona notizia dell’amore del Padre che si destina a tutti. Ora, l’unica maniera con cui possiamo testimoniare questa verità è il recarci disarmati e nonviolenti, miti come agnelli anche tra eventuali lupi, in semplicità e povertà di mezzi, latori di una parola di pace (cf v.3-5). A oltranza. Sapendo che questo potrà comportare un rifiuto e guai a non finire. A cui noi, come il seguito del brano ci insegnerà, non risponderemo comunque per le rime (cf v.11). Per seguire l’esempio del Maestro sino alla fine.

Il giorno dopo la festa della Conversione di san Paolo, la Chiesa fa memoria di due suoi grandi amici e collaboratori: Timoteo e Tito, apostoli. Noi ricordiamo anche José Gabriel de Rosario Brochero, sacerdote e profeta tra i contadini dell’Argentina. I calendari monastici ricordano la figura di tre grandi riformatori del monachesimo occidentale: Roberto di Molesmes (1028-1111), Alberico (? – 1109) e Stefano Harding (1059-1134), fondatori dei Cistercensi.

Timoteo, figlio di padre pagano e di madre ebrea, di nome Eunice (se dobbiamo prestar credito alle informazioni biografiche delle Lettere Pastorali), era nativo di Listra. Paolo lo prese come aiutante nel corso del suo secondo viaggio missionario e, da allora, egli rimase quasi sempre con lui, salvo quando Paolo lo inviò in missione nelle comunità che aveva fondato e che attraversavano momenti di difficoltà o di contrasto. Secondo la tradizione, divenne guida della comunità di Efeso, dove rimase fino alla fine dei suoi giorni. Tito non è menzionato negli Atti degli Apostoli, ma vi fa cenno, in alcune delle sue lettere, lo stesso Paolo. Originario di Antiochia, Paolo lo inviò in missione, con successo, alla comunità di Corinto, dove era sconosciuto. Più tardi fu messo alla guida della comunità di Creta, dove sarebbe rimasto fino alla morte. Per quel che riguarda le Lettere a Timoteo e a Tito, la maggior parte degli studiosi ritiene non si possano attribuire direttamente all’autoria dell’Apostolo.

José Gabriel de Rosario Brochero nacque il 16 (o il 17) marzo 1840, quarto dei dieci figli di Ignacio Brochero e di Petrona Dávila, una povera coppia di contadini di Santa Rosa de Rio Primero, nella provincia argentina di Cordoba. Entrato in seminario nel 1856, fu ordinato sacerdote nel 1866. Durante il colera che colpì Cordoba nel 1867, si distinse per la sua infaticabile dedizione nell’opera di soccorso a malati e moribondi. Il 24 dicembre 1869 fu nominato curato della parrocchia di San Alberto, nella regione oggi conosciuta come Valle de Traslasierra, e fu ad abitare a Villa del Tránsito. In quell’inospitale regione, in mezzo a una popolazione condannata da secoli alla miseria, cominciò a seminare la semente del Vangelo che germina nella promozione integrale dei suoi parrocchiani. Con allegria e ottimismo, confidando nel Signore, e parlando il linguaggio del cuore, risvegliò in essi la solidarietà fino a trasformarli in una gigantesca famiglia. Arrivarono così a costruire tre scuole, un mulino per la produzione di farina, 66 strade che collegano i diversi municipi, una grande strada di 200 chilometri, numerose chiese e cinque cappelle. Aprirono una rete di canali di irrigazione, tracciarono sentieri che portano alle alte vette, costruirono dighe. Ma, prima di fare tutto questo, edificarono un’enorme casa per esercizi spirituali, capace di ospitare fino 900 persone per volta. I suoi campesinos calati dentro gli esercizi ignaziani: un’apparente pazzia! Lui, il Cura Brochero, fedele alla lezione evangelica, continuò, in assoluta povertà, per quarantacinque anni, a visitare a dorso di mula i suoi parrocchiani dispersi su un territorio di 144 mila chilometri quadrati. Poi si ammalò di lebbra, e divenne cieco. Un giorno disse: Ora ho le valige pronte, posso partire. E morì, il 26 gennaio 1914, a Villa del Tránsito, circondato dai poveri, suoi amici. Centovent’anni prima delle chiese del Continente, aveva scoperto da solo l’opzione dei poveri. Soleva dire: “Dio è come i pidoccchi; sta sulla testa di tutti, ma soprattutto dei poveri”. Morì il 26 Gennaio 1914 a Villa del Tránsito (oggi Villa Cura Brochero). Quando hanno riesumato il suo corpo vecchio e malato, l’hanno trovato intatto. Il che non vuole dire niente, solo uno scherzo di Dio. Che sia detto per inciso, il Cura Brochero è stato canonizzato il 16 ottobr 2016. Noi, come in molti altri casi, avevamo solo anticipato i tempi.

L’abbazia di Cluny, nata all’inizio del sec.X dall’esigenza di ripristinare l’osservanza dell’austera Regola benedettina, in meno di due secoli, si era venuta trasformando in un vero e proprio potentato feudale, un centro finanziario come pochi, i cui monaci, sfruttando il lavoro servile, disponevano di ogni tipo di comfort e, sempre più coinvolti nei loro negozi mondani, oltre che nel fomentare crociate, vivevano dimentichi della loro chiamata a testimoniare la radicalità evangelica. Nel 1075 Roberto, Alberico e altri monaci, che dipendevano da Cluny, si ritirarono a Molesmes, nella diocesi di Langres, fondando una nuova comunità. Presto però il denaro e le donazioni che cominciarono ad affluire anche lì riproposero gli antichi guasti: dissolutezza e indisciplina. Dopo molti tentativi di porvi rimedio, uno, dopo l’altro, Roberto, Alberico e Stefano (che era giunto nella comunità dall’Inghilterra solo nel 1085), preferirono andarsene piuttosto che essere complici della situazione. Più tardi i monaci, ravvedutisi, richiamarono i tre e il monastero tornò ad essere ciò che doveva. Tuttavia, il bisogno di vivere più poveramente e austeramente la vocazione monastica, portò i nostri, nel 1098, a ritirarsi, con altri ventuno monaci, a Citeaux, per fondarvi un nuovo ordine. Nascevano così i Cistercensi. A Roberto, che ne fu il primo abate, il papa Urbano II impose presto di tornare a Molesmes, dove la situazione si era nel frattempo mostrata ingovernabile. Gli succedette Alberico, eletto unanimemente dai suoi compagni. Il lavoro durissimo dei primi tempi (i monaci dovettero disboscare buona parte della foresta, per disporre di terra da coltivare) e le persecuzioni scatenate dai monasteri lassisti non riuscirono a scalfire l’entusiasmo della nuova famiglia monastica. I tre morirono santamente come erano vissuti: Alberico il 26 gennaio 1109, Roberto il 29 aprile 1111 e Stefano il 28 marzo 1134.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono propri della memoria di Timoteo e Tito e sono tratti da:
Lettera a Tito, cap.1, 1-5; Salmo 96; Vangelo di Luca, cap. 10, 1-9.

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali del Continente africano.

È tutto, per stasera. Non avendo a disposizione testi dei santi fondatori dei Cistercensi, vi offriamo in lettura, nel congedarci, un brano di Thomas Merton, che è forse il loro discepolo più noto nei nostri tempi. Tratto dal suo libro “Vita nel silenzio” (Morcelliana), è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Perché l’umiltà prenda possesso della sua anima, il monaco deve rinunciare completamente a tutte quelle faccende con le quali egli si sforza di celarsi la sua pochezza e di far passare i suoi difetti per virtù. La perfezione non è di chi si sforza di sentire e agire o apparire come se fosse perfetto; è di chi si rende conto d’essere peccatore come tutti gli altri, ma un peccatore amato, redento e mutato da Dio. La perfezione non è di chi si isola nelle torri d’avorio di un’immaginaria innocenza, ma soltanto di chi rischia di offuscare quella sua presunta purezza interiore affrontando la vita così com’è necessariamente in questo nostro mondo imperfetto, con le sue difficoltà, le sue tentazioni, le sue delusioni, i suoi pericoli. La perfezione non è di chi vive solo per sé e si occupa esclusivamente dell’abbellimento della propria anima. La santità cristiana non è mera questione di “raccoglimento” o di “preghiera interiore”. La santità è amore: amore di Dio soprattutto e amore del prossimo in Dio. E questo amore vuole completa dimenticanza di sé. (Thomas Merton, Vita nel silenzio).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 26 Gennaio 2021ultima modifica: 2021-01-26T22:36:51+01:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo