Giorno per giorno – 14 Gennaio 2021

Carissimi,
“Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte” (Mc 1, 45). Noi, il racconto della guarigione del lebbroso, propostoci dal vangelo di oggi, l’avevamo letto solo sei giorni fa, nella versione lucana (cf Lc 5, 12-14), che portava anch’essa la proibizione esplicita fatta da Gesù al lebbroso di farne parola con altri. Marco aggiunge il particolare dell’attività missionaria del guarito e anche la conseguenza che questa determina per Gesù che, trasgredendo la Legge mosaica, per il fatto di aver toccato il lebbroso che pure guarisce, ne rimane “giuridicamente” contagiato, vedendosi così obbligato a vivere l’esclusione riservata ai lebbrosi. Questo ci fa sapere dove e con chi sceglie di stare Dio. Con buona pace dei benpensanti. Si parlava proprio oggi con la nostra amica Edna, che fa parte della Pastorale carceraria, la cui attività (con questa categoria di lebbrosi del nostro tempo rappresentata da quanti sopravvivono ammassati in condizioni disumane nei nostri penitenziari) suscita così tante resistenze in molti che si ritengono cristiani, ma per i quali vale tuttavia il detto “bandito buono è bandito morto”. E si diceva del segno che, nel racconto genesiaco, Dio appone su Caino, a sua tutela, perché nessuno (neppure lo Stato) possa arrogarsi il diritto di ucciderlo, nella pretesa di fare così giustizia del delitto commesso. Quel segno deve dunque fermare la mano ugualmente omicida del singolo o dell’istituzione che si voglia vendicatore del sangue innocente versato, ma deve anche ricordare al Caino di turno l’amore di Dio (e perciò anche nostro) che non viene meno, come anche la somiglianza con Lui a cui tutti siamo costantemente chiamati. Gesù, dal canto suo, è venuto a porre il suo segno di protezione, com-passione, riscatto su ogni categoria di emarginati a vario titolo dal consorzio umano (si pensi alle Beatitudini). Questo, affinché nessuno possa più pensare di escludere qualcuno (men che meno in nome di Dio) e si faccia invece della comunione a partire dagli ultimi e più disprezzati la logica per testimoniare la presenza attuante del Regno in mezzo a noi.

Oggi è memoria di Serafim di Sarov, mistico e asceta della Russia ortodossa, e di Leonhard Schiemer, pacifista anabattista, martire.

Prochor Mosnin (tale il suo nome alla nascita) era nato il 19 luglio 1759 a Kursk in una famiglia di commercianti, conosciuti da tutti come cristiani devoti e caritatevoli. Da ragazzo Prochor amava frequentare la divina liturgia e dedicarsi alla lettura di libri religiosi. Diciottenne, durante un pellegrinaggio alle Grotte di Kiev, vi conobbe il santo staretz Dositeo, che, confermandolo nella vocazione monastica, lo indirizzò al monastero di Sarov, affidandogli la preghiera del Nome come mezzo potente per restare unito a Dio. Dopo otto anni di noviziato, il giovane fece la sua professione monastica, ricevendo il nome di Serafim. Nel 1794 Serafim fu ordinato prete e ricevette il permesso di recarsi a vivere in una piccola capanna nella vicina foresta, per dedicarsi ad una vita di preghiera e digiuno e allo studio delle Scritture e degli scritti dei Padri. Lì visse, salvo brevi interruzioni, fino al 1810, quando, per obbedire alla richiesta dei monaci anziani, Serafim ritornò in monastero. Continuò tuttavia a vivere nella solitudine e nel silenzio della sua cella per altri dieci anni. Fu solo alla fine di questo lungo periodo di tempo che, obbedendo ad una visione del Cielo, si dispose ad accogliere quanti, visitando il monastero, aspettavano da lui una parola o un consiglio spirituale. Il vecchio monaco soleva allora salutare chiunque si recasse da lui con una prostrazione, un bacio e le parole del saluto pasquale: “Cristo è risorto!” e ad ognuno si rivolgeva chiamandolo con l’espressione “gioia mia”. Nel 1825 fece ritorno nella sua capanna nella foresta, dove, arricchito del dono della chiaroveggenza, continuò a ricevere migliaia di pellegrini da tutta la Russia. Serafim si riposò nel Signore il 1° gennaio 1833 del calendario giuliano (corrispondente al 14 gennaio del nostro calendario), mentre era inginocchiato davanti ad un’icona della Madre di Dio.

Leonhard Schiemer era nato verso il 1500 a Vöcklabruck (Alta Austria) in una famiglia molto religiosa, che l’aveva avviato al mestiere di sarto. Desideroso, però, di consacrarsi a Dio, Leonhard, poco più che adolescente, era entrato in un convento francescano, a Judenburg, ma sei anni più tardi, deluso dalla vita conventuale, ne era uscito, recandosi ad abitare a Norimberga, dove aveva ripreso l’antico mestiere. In questa città avvennero presumibilmente i primi contatti di Schiemer con gli ambienti anabattisti. Nel maggio 1527, recatosi a Nikolsburg, in Moravia, potè assistere alla disputa tra due diversi gruppi anabattisti, gli Stäbler (sostenitori della nonviolenza assoluta) e gli Schwertler (che sostenevano la liceità della difesa armata). Poche settimane più tardi quando, a Vienna, incontrò Hans Hut e la sua congregazione, Leonhard ne fece sue le tesi pacifiste e chiese di essere battezzato. Subito cominciò la sua attività di missionario, prima nella città di Steyr, poi a Salzburg e in Baviera. Nell’agosto 1527 partecipò, ad Augsburg, al Sinodo dei Martiri (chiamato così in seguito, perché un gran numero dei partecipanti trovò la morte a causa della fede professata). Inviato in Tirolo, si stabilì a Rattemberg, una cittadina sul fiume Inn, dove la congregazione locale lo volle suo vescovo. Il 25 novembre 1527, su pressione delle gerarchie cattoliche, Schiemer fu arrestato e imprigionato. Durante la prigionia, compose numerose opere, che avranno una notevole importanza nello sviluppo del movimento anabattista. Tra esse anche alcuni inni, che entrarono a far parte dell’Ausbund, l’innario in uso ancor oggi presso le comunità Amish. Nel gennaio 1528, un tentativo di fuga gli comportò un drastico peggioramento nelle condizioni di prigionia. Dopo ripetute sessioni di tortura, il giovane, non ancora trentenne, fu decapitato. Era il 14 gennaio 1528. Nei successivi dodici anni altri settanta anabattisti, uomini e donne, sarebbero morti a Rattenberg, testimoniando con il loro sangue la loro fedeltà al vangelo della pace e della nonviolenza.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera agli Ebrei, cap. 3, 7-14; Salmo 95; Vangelo di Marco, cap.1, 40-45.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

Noi ne facciamo memoria il giorno della sua scomparsa, il 4 settembre, ma vogliamo ricordarlo anche oggi, giorno della sua nascita, avvenuta a Kaysersberg, in Alsazia, nel 1875. Parliamo di Albert Schweitzer, che scelse di lasciare tutto per dedicarsi agli ultimi e più diseredati dell’Africa equatoriale. Scegliamo, nel congedarci, di proporvi una sua citazione tratta da “Filosofia della civiltà” (Fazi). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Per Cartesio, ogni filosofia deve partire dal principio “Penso, dunque sono”. Muovendo da una simile premessa, limitata e arbitraria, la filosofia cade irrimediabilmente nell’astrazione. Essa non trova sbocco nell’etica e resta prigioniera di una concezione morta del mondo e della vita. La vera filosofia deve, al contrario, avere come punto di partenza la convinzione più immediata e più comprensibile della coscienza: “Sono vita che vuole vivere, circondato da vita che vuole vivere”. Essa fa nascere in noi il senso etico della nostra unione mistica con l’essere. Come il mio proprio voler vivere implica un’aspirazione a continuare a vivere e a conoscere quell’esaltazione misteriosa del voler essere che chiamiamo gioia, così implica anche la paura dell’annientamento e dell’alterazione misteriosa del voler vivere, che chiamiamo dolore. Ugualmente, il voler vivere di tutte le esistenze che mi circondano comprende questi stessi movimenti, sia quando essi manifestano in qualche modo a me tale volontà di vivere, sia anche quando essi restano, per così dire, senza voce. La morale, dunque, consiste nel farmi provare la necessità di provare lo stesso rispetto della vita che ho nei miei confronti anche verso tutti gli esseri che mi stanno accanto. In questo consiste la vera e propria compassione, che non è solo partecipazione al dolore altrui, ma anche condivisione di gioia. (Albert Schweitzer, Filosofia della civiltà).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 14 Gennaio 2021ultima modifica: 2021-01-14T22:50:16+01:00da fraternidade
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