Giorno per giorno – 21 Settembre 2020

Carissimi,
“Gesù, vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: Seguimi. Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?” (Mt 9, 9-11). Il racconto della vocazione di Matteo, così sintetico, non manca di lasciare ogni volta sbalorditi quanti lo ascoltano, sempre che abbiano presente cosa significasse nel contesto religioso del tempo la sua professione. Considerata non una qualsiasi fonte di reddito, ma un lavoro di per sé peccaminoso, occasione di furti e estorsioni, al servizio, per giunta, dell’odiata potenza di occupazione. Succede che Gesù raggiunge Matteo e lo chiama proprio nel luogo del suo peccato. Sarebbe come se sorprendesse un ladro a svaligiare una casa, o un uomo nell’alcova sbagliata, o un politico in un comizio a fare uso strumentale della religione, o uno a spacciare droga in una bocca-di-fumo e, invece che fargli la predica, gli dicesse: Seguimi! E quello, impallidendo o arrossendo, non lo sappiamo bene, senza neanche il tempo di chiedergli e di chiedersi: Chi, io?, lascia tutto, e lo segue. Ma, a Gesù non basta. E se, Matteo, se l’è già bello e conquistato, il pensiero corre già allo stuolo dei suoi amici di affari loschi e di passatempi disonesti. E invece di marcare le distanze, ne fa la sua compagnia abituale. Matteo, più tardi, nello scrivere il vangelo, ricorderà la prassi di Gesù a certi buoni religiosi, scandalizzati per l’eccessivo permissivismo con cui venivano accolti in comunità persone di persistente dubbia fama. Gesù non accoglieva dopo di convertiti, ma li convertiva, poco a poco, proprio per averli fatti sentire accolti. Convertiva non al moralismo astratto di una legge separata dalla vita, ma alla logica del Regno, che rivela il senso vero della vita e rende capaci di scelte anche più difficili di quelle imposte dalla legge. Noi, oggi, a che punto siamo? E le nostre comunità come sono?

Oggi il calendario ci porta le memorie di Matteo, apostolo ed evangelista, del gesuita Gabriele Malagrida, apostolo del Brasile; e di Rosario Livatino, martire della giustizia in tempi di mafia.

Matteo-Levi è uno dei Dodici, tradizionalmente considerato l’autore del primo dei vangeli canonici. Figlio di Alfeo, prima della sua conversione, era pubblicano, cioè esattore delle imposte per conto dei romani. Mentre stava seduto al banco dell’esattoria, Gesù lo vide e gli disse: “Seguimi”. E lui si alzò e lo seguì. Si ritiene che la sua attività apostolica si sia limitata, almeno in un primo momento, alla Palestina, o che, comunque, si sia diretta a una comunità di giudei cristiani, nell’ambito della quale sarebbe poi stato redatto il Vangelo che porta il suo nome. Una tradizione indica l’Etiopia come suo successivo campo di missione, altre tradizioni suggeriscono la Persia. Forse morì martire.

Gabriele Malagrida nacque a Menaggio, sul lago di Como, il 6 dicembre 1689. Entrato nella Compagnia di Gesu nel 1711, dopo alcuni anni di insegnamento a Bastia, in Corsica, ottenne di partire per il Brasile, nel 1721, dove per molti anni svolse il suo ministero nelle missioni del Pará e del Maranhão. Per dodici anni percorse oltre seimila chilometri, in gran parte a piedi, lungo un itinerario che lo portò fino a Salvador de Bahia e gli fece attraversare sulla via del ritorno gli attuali stati di Sergipe, Alagoas, Pernambuco, Paraíba e Ceará. Fu una grande marcia al servizio del Vangelo, durante la quale predicò, battezzò, confessò, fondò conventi e costruì chiese, ma soprattutto denunciò le soperchierie dei ricchi, difese i diritti degli indios, protesse emarginati, poveri e prostitute, condividendo con loro uno stile di vita povero e austero. Recatosi per un breve soggiorno a Lisbona nel 1750, vi fece ritorno nel 1754, chiamato a corte e accolto da uno moltitudine di fedeli, presso i quali si era diffusa la fama della sua santità. Sfortunatamente questo suo soggiorno coincise con la salita al potere, nel 1756, di Sebastião José de Carvalho e Melo, il famigerato marchese di Pombal, nelle cui mani si venne concentrando tutto il potere del Portogallo di Dom José I e che era nemico giurato delle missioni e dei gesuiti. Due opuscoli piuttosto farneticanti, attribuiti all’anziano gesuita, in cui si sosteneva che il terribile terremoto del 1° Novembre 1755 che aveva distrutto Lisbona era da considerarsi un castigo divino, offrì il pretesto al marchese di Pombal per ordinarne l’arresto e istituire successivamente un processo presso la santa Inquisizione. I giudici, legati a filo doppio al potente ministro, condannarono il gesuita, come visionario ed eretico, consegnandolo al braccio secolare per essere strangolato e bruciato sulla pubblica piazza. Il che avvenne il 21 settembre 1761. L’anno seguente, papa Clemente XIII lo beatificò e proclamò “martire della chiesa e apostolo del Maranhão”.

Rosario Angelo Livatino era nato a Canicattì (Agrigento) il 3 ottobre 1952, da Vincenzo e Rosalia Corbo. Giovane di Azione Cattolica, dopo gli studi classici, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza a Palermo, laureandosi “cum laude” nel 1975. A ventisei anni, nell’estate del 1978, dopo essersi classificato tra i primi in graduatoria nel concorso per uditore giudiziario, entrò in magistratura presso il Tribunale di Caltanissetta. Nel 1979 diventò sostituto procuratore presso il tribunale di Agrigento e ricoprì la carica fino al 1989, quando assunse il ruolo di giudice a latere. In breve, il giovane magistrato venne acquisendo una conoscenza approfondita del fenomeno mafioso e delle sue trame, infiltrazioni, connessioni e collusioni, nei più diversi ambiti, istituzionale, economico-finanziario, politico, massonico, e operò conseguentemente, mettendo a segno numerosi colpi nei confronti dell’organizzazione mafiosa, anche attraverso lo strumento della confisca dei beni. Venne ucciso il 21 settembre del 1990 mentre si recava, senza scorta, in tribunale, per mano di quattro sicari assoldati dalla Stidda, un’organizzazione mafiosa attuante nell’agrigentino. Pochi giorni prima, Cossiga, l’ineffabile Presidente della Repubblica di allora, da sempre vicino ai poteri occulti, aveva dichiarato, con evidente allusione: “Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta”. Ma il “giudice ragazzino” tirò dritto per la sua strada, fino a dare la vita. Un giorno aveva detto: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Beh, lui lo è stato, a prezzo della vita.

I testi che la liturgia odierna consegnano alla nostra riflessione sono propri della memoria dell’apostolo Matteo e sono tratti da:
Lettera agli Efesini, cap.4, 1-7.11-13; Salmo 19; Vangelo di Matteo, cap. 9, 9-13.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con le religioni del subcontinente indiano: Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.

Oggi 21 settembre si celebra la Giornata Internazionale della Pace, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 30 novembre 1981 con la risoluzione 36/67 che ne fissava la ricorrenza il terzo giovedì di settembre, spostata poi, a partire dal 2002, al 21 settembre di ogni anno. La giornata ha come scopo quello di sollecitare gli stati membri delle Nazioni Unite, le organizzazioni governative e non governative e gli individui, ad unirsi per far cessare le ostilità esistenti nel mondo e a commemorare la Giornata in maniera appropriata, sia attraverso l’educazione e una capillare azione di coscientizzazione sul tema della pace e della nonviolenza.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano della conferenza tenuta da Rosario Livatino, il 7 aprile 1984, presso il Rotary Club di Canicattì, con il titolo “Il ruolo del giudice nella società che cambia”. La troviamo in rete ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività. Inevitabilmente, pertanto, è da rigettare l’affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello Stato e secondo la quale, quindi, il giudice della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole. Una tesi del genere è, nella sua assolutezza, insostenibile. (Rosario Livatino, Il ruolo del giudice nella società che cambia).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle dela Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 21 Settembre 2020ultima modifica: 2020-09-21T22:06:19+02:00da fraternidade
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