Giorno per giorno – 06 Luglio 2020

Carissimi,
“Ed ecco, una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, gli si avvicinò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Diceva infatti tra sé: Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata. Gesù si voltò, la vide e disse: Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata. E da quell’istante la donna fu salvata” (Mt 9, 20-22). Nella testa – o meglio, nel cuore – di quella donna doveva essersi affacciata da tempo quella rivelazione primordiale di Dio rivolta ai piccoli, per la quale avevamo visto Gesù, nel vangelo di ieri, prorompere nella sua lode e nel suo ringraziamento al Padre. Ritualmente impura, a causa della malattia, che, tra l’altro, secondo le credenze dell’epoca, la segnalava non esente da colpa, al punto forse di convincersi lei stessa, deve comunque aver pensato che Dio, di cui si decantava tanto la misericordia, le “viscere materne”, non può restare indifferente di fronte al male dei suoi figli. E se quel Gesù, di cui si vociferava tanto essere uomo di Dio, lo era per davvero, a lei sarebbe bastato, sfidando le condanne della morale e dei canoni che la mettevano al bando della società, arrivare a sfiorarne il manto, per essere liberata dal suo male. Così, piena di coraggio – “e se qualcuno mi riconoscerà e denuncerà la sacrilega presenza dell’intrusa, nella folla al seguito del santo? Non importa, io vado” – fende la moltitudine, spintonata di qua e di là, raggiunge l’Uomo, ne tocca il mantello, e Lui subito si gira – “ahimè, mi rimproverà”, pensa lei -, e invece, forse con un sorriso complice, Lui si limita a dirle: “Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata”. Lo sapevo, si sarà detta la donna, lo sapevo che Dio è come lo pensavo io e non come mi avevano insegnato a temerlo. E che se ne può fare l’esperienza ogni volta che si incontra chi, chiunque egli sia, fa qualcosa per liberare qualcuno dal suo male. Quanto a quel Gesù, chissà se lo incontrerò ancora, se ne sentirò ancora parlare. Ma ciò che importa è che mi ha confermato nella mia fede e ha risposto al mio desiderio di vita. Dovrò fare qualcosa di simile anch’io, per togliere un po’ di male dal mondo e sbugiardare certe sciocchezze che si insegnano su Dio.

Due sono le memorie di oggi, entrambe sotto il segno del martirio, della testimonianza alla Verità di Gesù, fino a dare la vita. Quelle di Jan Hus e di Thomas More.

Jan Hus era nato a Husinec, nella Boemia meridionale, verso il 1371. Terminati gli studi, fu ordinato presbitero nel 1400. Chiamato all’ufficio di predicatore della chiesa di San Michele a Praga, divenne professore di teologia all’Università della stessa città. Uomo di una profonda spiritualità, saldamente ancorata alla Parola di Dio, Hus percepì presto la corruzione, i latrocini e l’ipocrisia che dilagavano soprattutto tra il clero e diede tutto se stesso per restituire alla comunità dei semplici cristiani, attraverso un approccio diretto alle Scritture, la figura del Gesù umile, povero, solidale con gli ultimi, consegnatoci dal Vangelo. La sua predicazione rivelò numerose convergenze con le dottrine del riformatore inglese John Wycliff, condannato per eresia (che, all’epoca, era praticamente sinonimo di fedeltà all’Evangelo) qualche decennio prima. Questo fatto segnò anche il destino di Hus. Nel 1408, infatti, il prete fu sospeso a divinis e nel 1412 scomunicato. Nonostante il favore popolare, quando nel 1413 la nobiltà favorevole al clero corrotto prese il potere a Praga, Hus dovette fuggire e rifugiarsi nel villaggio natale. Qui scrisse la sua maggior opera teologica, De Ecclesia. Il culmine della tensione con la gerarchia ecclesiastica si registrò quando, nella lotta che opponeva due contendenti al titolo di papa, uno dei due (che successivamente sarebbe uscito sconfitto) promosse la vendita di indulgenze per raccogliere fondi per una guerra contro il rivale. Hus restò sconvolto dall’idea che si potesse anche solo immaginare di vendere benefici spirituali per finanziare una guerra tra due che rivendicavano il titolo di “Servo dei servi di Dio” e lo dichiarò pubblicamente. Nel 1414, convocato dal Concilio di Costanza, vi si recò, munito di un salvacondotto imperiale, per difendere le sue tesi. Non aveva tenuto conto che, per un certo potere, anche i salvacondotti erano carta straccia. Riconosciuto colpevole, fu condannato a morte e e arso vivo nella pubblica piazza il 6 luglio del 1415.

Thomas More era nato a Londra il 7 febbraio 1478. Di carattere accattivante e simpatico, sposo e padre di famiglia, ebbe un figlio e tre figlie. Profondamente religioso, prendeva parte quotidianamente all’Eucaristia, dedicando inoltre parte del suo tempo alla lectio divina. Fu giurista e amico di Erasmo di Rotterdam, il celebre umanista che gli dedicò il suo capolavoro “L’elogio della pazzia”. Cancelliere del regno, lasciò numerose opere, la più conosciuta delle quali è L’Utopia: il sogno di una società perfetta, in cui, per dirlo con le sue parole, non succeda più che “un nobile, un banchiere, uno strozzino, un fannullone, un ignavo, che nulla fa per il bene dello Stato, abbia il diritto di vivere tra mollezze e lusso, tra l’ozio e gli inutili perditempo, mentre un operaio, un cocchiere, un falegname, un contadino, che lavorano come muli e senza i quali lo Stato non potrebbe tirare avanti neppure per un anno, abbiano a stento un boccone di pane e menino un’esistenza miserabile”. Che era, anche solo limitandoci a questo, un programma discretamente radicale! Essendosi opposto al divorzio di Enrico VIII e alla pretesa del re di arrogarsi l’ultima parola in materia religiosa, fu condannato a morte. Dopo la sentenza, alla Corte che gli chiedeva se avessa qualcosa da aggiungere, Thomas More rispose: “No, signori, non ho più niente da aggiungere se non che come si legge negli Atti degli Apostoli – san Paolo era presente e consenziente alla morte di santo Stefano ed ebbe in custodia le vesti di coloro che lo lapidavano: eppure ora sono entrambi santi in Paradiso, e lassù saranno amici per sempre. Così, io fermamente confido – e con tutto il cuore lo chiederò nelle mie preghiere – che, benché voi, monsignori, siate qui in terra i giudici della mia condanna, possiamo un giorno ritrovarci tutti insieme nella gioia del Paradiso, per la nostra eterna salvezza”. Thomas More fu decapitato il 6 luglio 1535, testimoniando così la sua fedeltà alla sua propria coscienza e alla Chiesa di cui si sentiva figlio.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Osea, cap.2, 16. 17b-18. 21-22; Salmo 145; Vangelo di Matteo, cap.9, 18-26.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.

Il Dalai Lama (Oceano di Saggezza) compie oggi ottantacinque anni. Nato il 6 luglio 1935, a Taktser, in un villaggio nel nord est del Tibet, da Choekyong Tsering e da Diki Tsering, il piccolo Lhamo Döndrub, all’età di due anni venne riconosciuto come tulku, o reincarnazione dello scomparso Thubten Gyatso, il tredicesimo Dalai Lama, e, come tale, emanazione del bodhisattva Avalokitesvara (il Buddha della Compassione), e fu perciò ribattezzato con il nome di Jetsun Jamphel Ngawang Lobsang Yeshe Tenzin Gyatso. Guida spirituale del buddhismo tibetano, il Dalai Lama ha ricevuto nel 1989 il Premio Nobel per la Pace. Beh, in tale occasione, come abbiamo già fatto in passato, scegliamo di congedarci con una sua citazione, tratta questa volta da un suo libro dal titolo “L’arte di essere pazienti” (Neri Pozza Editore), che è, così. per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Si può notare come tutte le maggiori religioni del mondo, benché possano essere caratterizzate da differenti modalità di insegnamento della compassione e diversi modi di mostrare il motivo per cui il rafforzamento di una condotta compassionevole sia importante, convergano sul solo concetto di compassione come radice. È un concetto cruciale. La compassione può essere approssimativamente definita come un atteggiamento mentale non violento, non dannoso e non aggressivo, e per questo si corre il rischio di confonderla con l’attaccamento e l’intimità. Scopriamo così che esistono due tipi di amore o compassione. Da un lato, compassione o amore basati sull’affetto o su qualcosa vicino all’affetto: questo tipo di amore o compassione e sentimento di intimità è piuttosto incompleto e parziale, e si basa soprattutto sulla considerazione che l’oggetto del proprio affetto o attaccamento è una persona cara o vicina. Dall’altro lato, l’autentica compassione non caratterizzata da tale affetto: in questo caso la motivazione non è data dal fatto che la persona è mia amica, mi è cara o è imparentata con me. Piuttosto, l’autentica compassione si basa sul fondamento logico che, proprio come me, anche altri hanno questo innato desiderio di essere felici e di vincere la sofferenza; e proprio come me, hanno il diritto naturale di esaudire questa fondamentale aspirazione. Dalla consapevolezza di questo carattere comune e di questa uguaglianza, l’individuo sviluppa un senso di affinità e intimità, sulla base del quale genererà amore e compassione. È questa l’autentica compassione. (Dalai Lama, L’arte di essere pazienti).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 06 Luglio 2020ultima modifica: 2020-07-06T22:13:35+02:00da fraternidade
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