Giorno per giorno – 29 Giugno 2020

Carissimi,
“Uno scriba si avvicinò e gli disse: Maestro, ti seguirò dovunque tu vada. Gli rispose Gesù: Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. E un altro dei suoi discepoli gli disse: Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre. Ma Gesù gli rispose: Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Mt 8, 10-22). Gesù non fa proselitismo spicciolo, non bada ai numeri e se qualcuno, ad ascoltarlo, si fa prendere da un facile entusiasmo, lo mette in guardia: guarda che sono povero in canna, sappiti regolare. Il Vangelo non ci dice se lo scriba in questione ci ripensò. Né sappiamo se il discepolo che gli aveva chiesto di poter partecipare ai funerali del padre, di fronte al diniego di Gesù, abbia finito per obbedirgli o meno. Seguirlo non è un gioco, né può essere una passione temporanea, sovrapponibile ad altre. Lui cerca gente disposta a lasciare tutto e tutti, per il progetto del Regno. Quanto al bene, al prendersi cura, guarire, servire, non fa distinzioni, si destina a tutti, gratuitamente, come ha insegnato esssere Dio, che “fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5, 45), e in questo consiste la sua giustiza e la sua perfezione. E così chiede di comportarsi a chi decide di seguirlo: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48). E gli altri? Gli altri facciano i bravi, per quel che possono.

Oggi la Chiesa celebra la festa degli Apostoli Pietro e Paolo (che da noi è, però, spostata alla domenica).

Simone (chiamato Pietro, ovvero Roccia), figlio di un certo Giona, (cf Mt 16,17), fratello di Andrea, (Mt 10,12) e, come questi, pescatore, era, con Giacomo e Giovanni, uno dei discepoli prediletti di Gesù (Mc 5,37; 9,2; 14,33), che, per altro, al momento decisivo, rinnegò (Mc 14,66-72). Fu uno dei primi testimoni della Resurrezione. Dopo la morte di Gesù, divenne figura di riferimento della giovane comunità di Gerusalemme. Una tradizione credibile afferma che morì martire a Roma, durante la persecuzione di Nerone (64-67).

L’ebreo Saulo, (con il nome romano di Paolo), nacque a Tarso, in Cilicia, si recò a Gerusalemme dove per alcuni anni, alla scuola di Gamaliele, studiò la Scrittura, diventando uno zelante fariseo. Persecutore dei cristiani, fu raggiunto dal Signore che lo chiamò a diventare “servo di Dio, apostolo di Gesù Cristo per portare coloro che Dio ha scelti alla fede a alla conoscenza della verità” (Tt 1,1). Partendo da Antiochia di Siria, organizzò, prima con Barnaba, poi con Sila e Timoteo, tre grandi spedizioni missionarie, con l’obiettivo di annunciare il Vangelo ai pagani, fondando numerose comunità cristiane, che, successivamente contribuì a consolidare, visitandole personalmente o inviando loro le sue lettere pastorali. Prima di morire martire a Roma (probabilmente nell’anno 67), potè confessare (secondo la testimonianza dell’autore della lettera a Timoteo): “Ho combattuto la buona battaglia, sono arrivato fino al termine della mia corsa e ho conservato la fede” (2 Tm 4, 7 ).

In Brasile la festa odierna dei SS Pietro e Paolo è stata celebrata ieri, così i testi offerti dalla liturgia alla nostra riflessione sono quelli propri di questo lunedì del Tempo Comune e sono tratti da:
Profezia di Amos, cap.2, 6-10. 13-16; Sal 50; Vangelo di Matteo, cap.8, 18-22.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con le grandi religioni dell’India: Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.

È tutto, per stasera. Prendendo spunto dalla solennità odierna dei santi Pietro e Paolo, scegliamo di offrirvi in lettura un brano di Karl Barth, tratto dal suo famoso commento a “L’Epistola ai Romani” (Feltrinelli). Che è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
“Non rendete ad alcuno male per male”. Il “male” nel senso cristiano è la determinazione necessaria della realtà visibile di ogni azione. Il “male” è la greve massa dell’azione dell’uomo come uomo. Al male non si contrappone in nessun caso il bene come una seconda possibilità. Il bene è la condanna e la soppressione del male, la giustificazione dell’uomo per mezzo di Dio, l’impossibile possibilità della liberazione dal male. “Perché m’interroghi tu su ciò che è buono? Uno solo è il buono” (Mt 19, 17). La regola della nostra relazione con l’altro, anche quando questa relazione è l’ “amore”, è che noi rendiamo male per male, cioè noi non vediamo nell’altro l’uno (il buono) che egli non è (Rm 12, 9), e gli facciamo carico di essere quello che egli è. Per questo fatto, perché ci contentiamo di una considerazione diretta del nostro prossimo, perché stiamo al suo aspetto visibile, noi lo diamo semplicemente perduto per il bene, anche quando vediamo in esso ogni sorta di “bene”. Poiché questo addebito che gli facciamo è un “rendere il male”. Assai prima che cominci la nostra contesa con l’altro, il gioco di urti e controurti (con i suoi mezzi, che sono tutti “cattivi”), noi gli abbiamo già reso il male con questo addebito, con questo non vedere quello che egli non è. Poiché questo non vedere è anche da parte nostra l’opera della malvagità, l’azione della massa pesante. E questa è la via per la quale ci muoviamo senza eccezione. Ma anche questa linea può essere, se non interrotta, forzata fino al punto di rottura dalla riflessione che affermando non a torto il male dell’altro affermiamo anche il nostro male e che soltanto l’affermazione del bene nell’altro, cioè dell’Uno in lui, può significare la nostra giustificazione. Noi non possiamo seriamente, con serietà eticamente qualificata, ritenere giustificato il “rendere male per male”. Verso “nesssuno”, poiché anche la più grande malvagità dell’altro può soltanto rendere più chiara la nostra propria condanna, e rendere più grave il problema della nostra giustificazione. Nella misura dunque in cui questa riflessione critica si renderà più o meno visibile in un non rendere, non addebitare, non contrastare, in un atteggiamento di volontaria ignoranza del male degli altri, che sul piano visibile non potrà essere inteso che come “debolezza”, potrà essere per lo meno segnato nel visibile (come singolare perturbazione nella linea retta dell’azione umana) l’invisibile: l’Uno nell’altro, che è anche in me, la non imputazione divina del peccato. E anche qui il ricordo che non vi è una interruzione di questa linea retta, che non vi è un’azione assolutamente buona (né potrebbe esservi), ci preserverà da sé dall’assolutizzare questo atteggiamento di non resistenza, e questa riserva non sará certamente ai danni della speranza del mondo veniente. (Karl Barth, L’Epistola ai Romani).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 29 Giugno 2020ultima modifica: 2020-06-29T22:37:09+02:00da fraternidade
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